Il futuro della fede

I gesti e le parole di Papa Bergoglio sorprendono credenti e non credenti, incrinando molte presunte certezze. Ne parliamo con monsignor Pierangelo Sequeri, docente alla Facoltà teologica di Milano e all’Accademia di Brera: «Quando la Chiesa si preoccupa ossessivamente di se stessa si immalinconisce – egli afferma -; quando si concentra sull’annuncio del Signore, diventa bella e sorridente». La prossima settimana l’intervista a Zygmunt Bauman, sociologo della società liquida.

Monsignor Sequeri, ci potrebbe aiutare a riflettere sul felice stravolgimento delle coscienze che i primi otto mesi del pontificato di Jorge Mario Bergoglio hanno provocato? Le sorprese sono iniziate subito, con la scelta del nome “Francesco” e con il «Fratelli e sorelle, buonasera» rivolto alla folla in piazza San Pietro. A noi, però, è parsa ancora più significativa la “benedizione silenziosa” impartita ai giornalisti nell’Aula Nervi, il 16 marzo, quando il Papa disse: «Vi avevo detto che vi avrei dato di cuore la mia benedizione. Molti di voi non appartengono alla Chiesa cattolica, altri non sono credenti. Di cuore impartisco questa benedizione, nel silenzio, a ciascuno di voi, rispettando la coscienza di ciascuno, ma sapendo che ciascuno di voi è figlio di Dio»Che cosa si può ritrovare in questo gesto? L’idea che la testimonianza cristiana sia più potente (o più sottile) di qualsiasi “discorso”? Una forma di “simpatia preventiva” nei confronti dell’umanità contemporanea?

Direi che la chiave è l’intenzione di stabilire, in modo molto semplice e immediato, un rapporto personale, rispettoso dell’interlocutore. Nell’immaginario collettivo si è abituati a un duplice stile del linguaggio ecclesiastico: quello per cui si guarda a tutti come a potenziali chierichetti, e quello per cui si parla sempre come se ci si rivolgesse al corpo diplomatico. Il Papa – si sa – dovrebbe costantemente parlare urbi et orbi, ossia al mondo e per la storia, chiunque abbia davanti. Francesco, invece, dà prova di non voler trattare quelli a cui parla come semplici uditori del suo magistero, ma come interlocutori; e usa con simpatia e rispetto le formule di simpatia e rispetto che tutte le persone per bene usano; e sa che oggi, più ancora di ieri, gli interlocutori del Pontefice sono sempre misti: ascoltano con cortesia, persino con ammirazione, ma non devono essere reclutati come “fedeli a tutti i costi”. Francesco ne è consapevole, e al tempo stesso pensa di dire cose che possono essere buone anche per loro. Questa normalità appare inedita ed emozionante – “fuori norma” – in rapporto a ciò che tutti si aspettano. In un attimo, questo tratto di stile (che oltretutto si intuisce essere sincero, non costruito) costringe a rivedere qualche pregiudizio; e insinua il sospetto che forse anche altre immagini riguardo alla “lontananza” della Chiesa dall’umanità contemporanea non corrispondano a verità.

LA CHIESA E LA TENTAZIONE DELLA RICCHEZZA

A partire dalla scelta del nome da Pontefice, Francesco ha sottolineato in molte occasioni l’importanza che la Chiesa sia “povera”. Questo tema, però, non si presta ad essere equivocato o banalizzato, come se si trattasse di operare una spending review anche in Vaticano? La posta in gioco non è più alta?

La mia impressione è che la portata – e la sfida – di questo messaggio vadano oltre gli argomenti consueti delle “ricchezze della Chiesa” e dei “tesori del Vaticano”. Intuiamo che a essere messa in discussione è una forma della mente e dell’animo che il sistema economico-finanziario occidentale ha generato, come effetto collaterale dei suoi innegabili avanzamenti nel dominio delle risorse e nell’ottenimento del benessere. La povertà va combattuta: ma la ricchezza che dovrebbe farlo, quando diventa scopo a se stessa e supera una certa soglia, incomincia a lavorare proprio contro questo obiettivo dichiarato. L’eccesso della quantità produce cattiva qualità, genera stati mentali corrotti. Sembra strano, perché noi siamo così fieri della nostra razionalità che pensiamo di poter comunque tenere a bada il fenomeno. Non è così. La Chiesa deve dunque farsi sentinella della qualità dell’esperienza umana: senza farsi incantare dalle promesse dell’arricchimento, che fanno lampeggiare anche migliori possibilità di opere buone. Quanto più si allargano gli effetti perversi, tanto più sobria deve essere la Chiesa e tanto più capace di farsi corpo e voce dell’abbandono e della disperazione di coloro che rimangono alla periferia delle promesse di Mammona. Oltre un certo livello di benessere, infatti, l’insensibilità per la loro condizione diventa la norma (“non ci sono le risorse”, si usa dire) e larghi strati dell’umanità diventano semplicemente invisibili. Mai non devono essere invisibili per la Chiesa, dice il Papa. Qui non c’entrano capitalismo e comunismo, destra e sinistra. I poveri sono stati abbandonati da tutti, ormai. Non lo siano dalla Chiesa. Punto e a capo.

LO SLANCIO DELLA TESTIMONIANZA CRISTIANA

Nei suoi discorsi pubblici, pur accennando alla necessità di riforme nella Curia romana, Jorge Mario Bergoglio non sembra particolarmente in apprensione per le sorti della Chiesa; pare anzi voler “relativizzare” il ruolo di quest’ultima, come se il suo scopo primario fosse di parlare di Dio agli uomini – come se questo fosse il solo argomento “davvero interessante”.

Papa Francesco, per conto mio, meriterebbe già di passare alla storia per questo suo messaggio: quando la Chiesa si preoccupa ossessivamente di se stessa e dei suoi problemi di organizzazione e di mantenimento, si ammala nell’anima, si immalinconisce e perde l’orientamento. Quando invece si percepisce come riserva di talenti che fruttano solo se sono seminati nel campo dell’annuncio e della testimonianza del Signore, diventa bella, sorridente, giovane. L’immagine è una delle più tradizionali che ci siano. Nello scritto proto-cristiano noto come Il Pastore di Erma, una serie di visioni profetiche illustra la solidità della Chiesa che si appoggia sulla pietra perfetta che è Cristo. Nel testo appaiono frequentemente due immagini della Chiesa, che accompagnano Erma (come farà poi Beatrice con Dante, nel Paradiso). La prima è quella di una signora dall’aspetto nobile e saggio: è la Chiesa che ricorda il bisogno di serietà, di purificazione, di conversione per una comunità cristiana che tenda a pensare a se stessa e si lasci abitare dagli spiriti della gelosia e della contesa. L’altra figura è quella di una giovane elegante e fascinosa, scattante e leggiadra: è la Chiesa che smette di pensare a sé, ritrovando lo slancio appassionato dell’annuncio e il fascino lieve della testimonianza. L’aveva già profeticamente indicato Benedetto XVI, nell’ultimo tratto del suo insegnamento. Papa Francesco costruisce sopra questa chiave di volta, senza esitazioni.

L’INCONTRO CON LA CULTURA MODERNA, OLTRE GLI STEREOTIPI E I “BIGINI”

Nella famosa intervista concessa al confratello gesuita Antonio Spadaro, il Papa dà anche prova di conoscere approfonditamente diversi capolavori dell’arte “profana” del Novecento (pensiamo al suo apprezzamento de La strada di Fellini). Che morale se ne può ricavare? Che per entrare in sintonia con l’umanità odierna non basta la bonomia, o essere prodighi di sorrisi, ma occorre “studiare”, conoscere per davvero la cultura contemporanea, andando oltre la lettura di qualche riassunto o di qualche bigino? 

Questo è certamente vero, ma il tema merita alcune considerazioni aggiuntive. La Chiesa avrà sempre bisogno che alcuni suoi membri si occupino specialisticamente della cultura profana e del dialogo con essa; anzi, della necessità di ristabilire un dialogo con il mondo attuale stiamo già parlando da troppo tempo, e sarebbe meglio – come lei diceva – incominciare a studiare di più. La formazione teologica deve certamente aprire nuove rotte, per essere all’altezza di questo bisogno: pensare di fare teologia rimanendo estranei alla cultura del proprio tempo è un nonsenso. Del resto, solo negli ultimi due secoli una separazione di questo tipo ha caratterizzato, in negativo, la formazione ecclesiastica: alla grande patristica, alla teologia medievale, alla spiritualità del Rinascimento e del Barocco non erano affatto sconosciute le istanze “profane” delle rispettive epoche. Il messaggio di Papa Francesco, tuttavia, mi pare si collochi su un altro piano, più in profondità. Esso lascia intendere che una seria frequentazione personale dell’arte e della cultura, delle creazioni migliori dell’immaginazione umana, dovrebbe risultare normale per il credente.

Sì, perché è della qualità della nostra anima che stiamo parlando, della sua capacità di ospitare in sé tutto ciò che è autenticamente umano. Nel piccolo e nel grande, un primo dialogo con la cultura l’uomo di fede lo dovrebbe condurre dentro di sé. Un accostamento puramente strumentale o apologetico, invece, sa di posticcio, e renderà posticcia anche la testimonianza cristiana.

COME UN OSPEDALE DA CAMPO, DOPO LA BATTAGLIA?

Tra i tanti argomenti toccati nell’intervista a padre Spadaro, ci è parsa geniale la descrizione della Chiesa come “ospedale da campo”, destinato ad accogliere i feriti dopo una battaglia. Che visione della pastorale si può ricavare da questa immagine? Non si tratta – crediamo – di cogliere alle spalle un’umanità spiritualmente esausta per ricondurla nell’ovile…

Se è per questo, di feriti ce ne sono molti anche dentro l’ovile, dato che gli spiriti della contesa hanno tratto pretesto dalle difficoltà esterne per portare la guerra anche all’interno. Non ne possiamo più. I mediocri puntigli di improvvisati salvatori della patria in pericolo (tradizionalisti, progressisti o centristi che siano) hanno fatto più danni dei mitici cosacchi in piazza San Pietro. Basta. Noi siamo medici di vocazione, non sciabolatori o politicanti sempre intenti ad additare il nemico. Per la verità, siamo pronti a curare anche questi soggetti ossessivi: quando si tratta di salvare l’anima dalla disperazione e dall’avvilimento, “Dio non fa eccezione di persona”. Anche noi dobbiamo attenerci a questo principio: dobbiamo stare tra i feriti e le macerie, senza guardare alla divisa e alla parlata. Non siamo, tuttavia, né una ONG né la Protezione Civile. Siamo la Chiesa. Sappiamo di abitare una tenda fra gli uomini: non ci rifugiamo nei salotti buoni, e frughiamo ovunque ci siano segni vi vita. L’idea di Papa Francesco mi sembra questa: l’immaginario della Chiesa e sulla Chiesa va rovesciato: bisogna che, quando la si sente nominare, subito la si associ mentalmente a “qualcuno che si prende cura di te”, anche quando è pericoloso e tutti gli altri si sono defilati. La Chiesa non è un’organizzazione etica mondiale per il controllo della storia. Compreso questo, si può capire perfettamente anche tutto il resto: la disciplina, l’inevitabile apparato e persino il denaro necessario. La gente non è stupida: se la gerarchia dell’annuncio evangelico è rispettata, comprende anche tutto il resto (e persino le nostre umane debolezze). Altrimenti non capisce proprio nulla. Naturalmente, noi tutto questo lo spieghiamo già da tempo; ma troppo spesso siamo costretti a ricorrere alla fantasia. Facciamo così tanti discorsi per spiegare quello che la Chiesa “non è”, a dispetto di quello che si vede, che alla fine non ci resta più energia per far vedere come realmente è. Un cristianesimo che “si fa” troppo poco è costretto a “spiegarsi” troppo. Cerchiamo di voler bene alla Chiesa, e vogliamoci più bene: facciamo vedere di più, rendiamo evidente il “punto di contatto” con gli uomini del nostro tempo, perché tutti possano giungervi senza dover ricorrere a dotte spiegazioni metafisiche. Il resto verrà da sé. Un ospedale da campo? Va benissimo. Ricominciamo pure da qui.

IL DIALOGO TRA LAICI E CREDENTE? SÌ, MA CON PERSONE REALI

Alla luce del “carteggio” tra il Papa e il non credente Eugenio Scalfari, abbiamo qualche elemento per declinare su nuove basi la questione del rapporto fede-laicità? Se ne è parlato freneticamente, e forse anche un po’ a vuoto, nel recente passato.

La risposta a Scalfari, e il successivo incontro in Vaticano, avevano la loro necessità (stabilire un dialogo serio con un possibile interlocutore) e il loro azzardo (il rischio di manipolazione). Di fatto, la scelta di Papa Francesco impegna l’interlocutore laico in modo assai più diretto e vincolante, rispetto a un dialogo in cui ci si inventi una controparte-Chiesa in astratto. Il Papa insiste sul fatto che il dialogo – sia dal punto di vista cristiano, sia da quello laico – non può procedere astrattamente. Invece di immaginarsi un interlocutore ideale, occorre parlare direttamente con lui, prendendo sul serio il contesto a cui appartiene e le motivazioni a partire dalle quali egli argomenta.

In epoca moderna, il pensiero laico ha precisamente adottato un principio metodologico del tipo: possiamo ragionare sul ruolo della religione nella vita dell’uomo, ma escludendo la prospettiva della fede che sarebbe un’opzione soggettiva che inquinerebbe l’oggettività del ragionamento.

La tesi del Papa, invece, è che la religione debba esporsi senza soggezione né timore nel discorso pubblico, in modo argomentato, non semplicemente nella forma della catechesi per i credenti. Il cristianesimo lo può (lo deve) fare, senza mancare di rispetto all’interlocutore, anche nel caso in cui questi dichiari di non essere interessato alla religione come possibilità di una “fede personale”. In questo senso, il dialogo avviatosi tra il Papa e Scalfari ha un rilievo emblematico: al laico si chiede di superare il pregiudizio per cui la fede non avrebbe alcun motivo d’interesse, nella sfera pubblica; il credente è chiamato a prendere sul serio la coscienza (e non semplicemente l’ideologia) dell’interlocutore. Questa attitudine rispettosa è parte integrante della testimonianza cristiana.

Non deve essere pensata, cioè, come una nuova strategia di autodifesa corporativa; e nemmeno come la ricerca di un embrassons-nous mediatico, sul modello di certi dibattiti in cui tutti finiscono per darsi ragione a vicenda, dicendo che prima si era equivocato sulle parole…    

Infatti, non si tratta di questo. L’aspetto convincente dello stile di Papa Francesco, che più o meno consciamente tutti percepiscono, sta proprio nel fatto che egli non persegue obiettivi del genere.

PAPA FRANCESCO E I CUSTODI DEL SACRO 

L’ultimo punto che vorremmo toccare è quello delle prime critiche mosse a Francesco, accusato da alcuni di voler “desacralizzare” la figura del Pontefice. In certi siti web, soprattutto, si è avviato il gioco dei confronti con il predecessore Benedetto XVI, e c’è chi prevede a breve disastri, “tradimenti dei chierici”, cadute collettive nell’apostasia.

I tradimenti peggiori si consumano all’ombra di un′apparente difesa della sacralità della legge e della tradizione. Così, non si ha scrupolo di accusare di eresia Papi e Concili; si esalta la Chiesa che è stata per seminare disprezzo verso la Chiesa che c’è. D’altra parte, già agli esordi del cristianesimo il vangelo di Gesù venne considerato una profanazione, non dagli atei e dai peccatori, ma da certi interpreti del “sacro” che se ne servivano per difendere i loro privilegi. Papa Francesco sa benissimo tutto questo, e insiste – non casualmente – sul tema della maldicenza, dei pettegolezzi con cui “si uccidono i fratelli”, anche entro le mura della Chiesa. Su questo punto, egli non esita a menzionare lo spirito del Maligno, come già fece Paolo VI e come ha ripetuto Benedetto XVI. Come rimedio alla discordia, il Papa invita tutti i cristiani ad avere una fiducia ferma, rocciosa nel vangelo, senza lasciarsi intimidire. Lo fa con il linguaggio di una fede devota, attaccata alla tradizione del catechismo che tutti conoscono, non con un lessico teologico o filosofico sofisticato. La sua predicazione interpreta il sacro cristiano in un senso “popolare”: il più solido e incrollabile, perché è quello di una devozione buona, piena di fiducia in Dio e di gratitudine per la fede ricevuta. Proprio così saranno scongiurati i pericoli di uno stravolgimento del deposito della fede, che servono da pretesto per le critiche a cui lei alludeva.

Papa Bergoglio fin dal primo momento ha sottolineato il legame tra la fede del Papa e quella del popolo cristiano, chiedendo alla gente di pregare Dio perché benedicesse il suo mandato.

Certo, e un’alleanza come questa non la puoi mandare fuori strada; sarà la nostra forza contro qualsiasi tradimento dei chierici o apostasia dei profittatori. Quella di Francesco non è una “teologia politica”, è una pastorale evangelica: un dato che irrita progressisti e conservatori, perché non si lascia inquadrare nei loro schemi, ma riscalda la fede del popolo di Dio, che ritroverà il fervore perduto e il gusto di seguire il Signore. Coloro che si sono nominati da sé “custodi del sacro” dovranno farsene una ragione.