Sfollati a Goma

Padre Pino Locati, missionario dei padri Bianchi di Treviglio nella Repubblica Democratica del Congo, originario di Arcene, ci racconta il suo incontro con gli sfollati in Africa.

Ho visto la rubrica «Lettere dalla fine del mondo» sul settimanale on line della nostra diocesi. Mi ha fatto veramente piacere trovare questa novità. Mi permette di avere uno sguardo sulla mia diocesi di origine. Vengo da Arcene e dal 2007 sono al mio terzo soggiorno nella R.D. del Congo. Dal primo arrivo a oggi, sono 20 anni di presenza per annunciare il Vangelo in Congo e lasciarmi evangelizzare dai poveri di questa nazione. Dal dicembre del 2012, il vescovo di Goma mi ha dato l’incarico «formale» di presenziare nei Campi degli sfollati.

«Sfollati»: ecco una parola nuova nel nostro linguaggio. Sono chiamati rifugiati i cittadini che devono emigrare in paesi stranieri per motivi di sicurezza; sono detti sfollati coloro che devono fuggire dai propri villaggi ma senza uscire dai confini nazionali. Mi trovo a Goma, città epicentro di appetiti finanziari mondiali mai sazi perché la regione che circonda la città rigurgita di minerali tra i più preziosi e indispensabili per far andare avanti l’economia tecnologica: l’oro, la cassiterite, la colombo-tantalite o coltan, il cobalto, lo stagno che servono per confezionare computer, smartphone, orologi, gioielli; sono impiegati nell’industria bellica, nell’aeronautica, nelle cure ospedaliere. Tutto l’est del Congo è un vero «scandalo geologico»: è sicuramente il paese potenzialmente più ricco del continente africano ma con una popolazione tra le più povere del mondo. Perché? La storia è lunga… la racconterò più tardi.

LA GENTE NEI CAMPI

La prima volta che ho messo i piedi in un Campo degli sfollati fu alcuni giorni prima di Natale del 2012 nel Campo di Mugunga 1 a circa 20 km dalla città. Vi sono entrato da solo. Mi avevano detto che era pericoloso entrare nei Campi. Ma è solo una scusa per non fare nulla per quella popolazione che conta 53.500 sfollati secondo l’ultimo censimento alla fine di agosto e che sopravvivono oggi in quattro grandi Campi. Ho sgranato gli occhi per vedere, osservare e poi per parlare, ascoltare. Mi sono inoltrato per tutto il Campo che era fino a dieci mesi fa la metà di quello che è diventato oggi. Il mio primo contatto lo definisco “bucolico, ecologico, con il mito della povertà, tutto bello e poetico” come alcune baite e stalle poste sui monti delle Orobie, anche se vedevo che la gente dormiva sulle pietre di lava, in rifugi riparati dai teli e vi potevano risiedere anche dieci persone in una promiscuità assoluta. Nessuna distribuzione di corrente elettrica ma grandi contenitori d’acqua con pompe che attraversano il Campo e la gente fa la coda per attingervi l’acqua.

Le persone mi si avvicinano, hanno compreso che non ero un agente delle Ong. Ma tutta questi sfollati da dove vengono? Sicuramente ci sono anche dei cristiani cattolici, dico loro che tornerò il giorno di Natale per celebrare la Messa!

Dal 1994 esistono questi Campi prima con 700.000 profughi hutu rwandesi sfuggiti alla vendetta dell’altra etnia rwandese e ora con gli sfollati congolesi. I ragazzini mi seguivano salutandomi in inglese, imitando i 19.000 soldati onusiani in Congo dal 1999 che però non assicurano alcuna sicurezza vitale per la popolazione della città e soprattutto della foresta. Ogni giorno leggo notizie in internet di massacri di civili innocenti e di stupri o di kidnapping (rapimenti) di persone causati dai movimenti ribelli. Questi sono più di una trentina nel nord – Kivu e un’altra decina nel sud – Kivu e hanno provocato lo sfollamento di 2.300.000 persone dai loro villaggi.  Ma racconterò questo più tardi. I soldati dell’Onu: perché non intervengono a spazzare via le bande criminali? Chi ha interesse a mantenere lo statu quo in Congo? Cominciavo a pormi delle domande senza vedere una risposta.

Il giorno di Natale ero all’appuntamento, accompagnato da qualche religiosa. Presenti non meno di 250 ragazzini intorno alla tavola traballante di un altare che sembrava posto su un calvario e oltre 300 gli adulti; proprio non me l’aspettavo. Io straniero con quella folla di persone divenute straniere nella propria terra! Che potevo dir loro in quella circostanza? Loro, i veri poveri, all’offertorio sono venuti per offrire i due spiccioli a quel Dio che era si era fatto “sfollato”, uscendo dal Cielo eterno e venuto a risiedere sulla terra degli uomini, più tardi diventerà un “profugo” in Egitto, un Dio in realtà fattosi debole come un bambino e nato in mezzo a quella popolazione impaurita che oggi non possiede nulla, tranne il proprio corpo e il proprio nome.

UN SEGNO DI SPERANZA

Proprio nel momento di terminare la celebrazione, il cielo si è riempito di nuvole e ci furono vari tuoni. Molte donne mi si sono accostate per ringraziarmi, per benedirmi e una mi ha anche detto: “Mupadiri, tulikwa kama maiti, sasa Mungu anafika kutuangalia na tunaishi tena!” “Padre, eravamo come dei cadaveri, il Signore oggi ci ha visitato e siamo tornati a vivere!”. Non mi ricordo di avere sentito parole più incoraggianti e cariche di speranza come quelle di questa donna anonima, venuta da un villaggio anonimo e perduta anche lei in una folla di nomadi–sfollati anonimi! Me ne uscivo dal Campo e da quel momento celebrativo, il cuore di tutti splendeva di Luce vera, quella che illumina la notte del mondo!

Pino Locati m. afr.