Famiglie sotto tiro

La crisi sta erodendo il ceto medio, sta cambiando gli stili di vita delle famiglie, ma soprattutto fa emergere il fallimento del sistema economico degli ultimi vent’anni. Stefano Tomelleri, docente di Sociologia dei fenomeni collettivi all’Università di Bergamo, analizza come sta cambiando la famiglia di fronte alla crisi e pone l’accendo sulle reti di prossimità che sul nostro territorio possono aiutare a superare le difficoltà.

Quali sono le condizioni delle famiglie nella crisi in atto?

«Oggi ci sono 4,7 milioni di famiglie che non arrivano alla fine del mese e 17 milioni di famiglie vivono un peggioramento della loro situazione. Le persone che vivono una condizione di povertà relativa sono oltre nove milioni e mezzo; di questi quattro milioni ottocentomila sono in una situazione di povertà assoluta. Dal 2008 ad oggi le situazioni di povertà sono aumentate in modo esponenziale».

Quali le conseguenze sulle famiglie?

«Spesso non sono in grado di garantire pasti adeguati, non riescono a pagare bollette, tasse, contributi o li pagano in ritardo; non riescono a sostenere spese mediche e sanitarie. Nel 2013 l’11,5 per cento delle famiglie ha chiesto un prestito in banca, contro il 6,5 del 2012, per far fronte a spese per beni di prima necessità. Si fatica sempre di più a garantire una piena integrazione sociale ai propri figli. È una situazione di grave disagio sociale che porta a rinunciare ai beni di prima necessità. Ma sta diminuendo anche l’ottimismo rispetto alle prospettive di futuro».

Stanno cambiamento gli stili di vita?

«Sì. Sono sempre di più le famiglie che sono costrette a ridimensionare gli stili di consumo. Ma è in atto anche un altro fenomeno sociale preoccupante».

Quale?

«L’erosione del ceto medio. A questa fascia sociale appartengono coloro che hanno raggiunto la piena integrazione sociale ed economica: sono le famiglie che possono mandare i figli a scuola, che si possono permettere i servizi sanitari, che hanno un rapporto appropriato tra reddito, stile di vita, consumi, cultura. Il ceto medio rappresenta un punto di equilibrio e di stabilità. Ma questa crisi lo sta erodendo. Nel contempo sono in crescita le famiglie molto ricche: aumenta il divario sociale tra chi è molto ricco e i poveri. Tutto questo a scapito del ceto medio che sta aumentando la sua vulnerabilità e sta scivolando in zone di povertà relativa».

Ciò comporta anche il rischio di una maggiore conflittualità sociale?

«Sì. Ed anche un maggior costo economico della vita sociale: la povertà significa maggiore sofferenza umana, ma rappresenta anche il fallimento di una sistema sociale. L’aumento della povertà porta con sé il rischio della disintegrazione del tessuto sociale».

Significa che la crisi sta facendo emergere il fallimento del nostro sistema economico?

«La crisi è il segno di un fallimento di come abbiamo concepito il rapporto tra ricchezza e lavoro: in questi vent’anni siamo cresciuti credendo che la ricchezza fosse finanziaria e separata dal lavoro; si è pensato che ci si potesse arricchire indipendentemente dal lavoro e dalle logiche di produzione. Ciò non è vero: la ricchezza è data dal lavoro. Ma la crisi è frutto anche della separazione tra ricchezza e democrazia: abbiamo pensato che il mercato potesse regolarsi da solo, indipendentemente dalle regole democratiche. Ora ne paghiamo il prezzo in termini di incremento della povertà».

E, infatti, le Caritas registrano che il 25-30 per cento delle famiglie che si rivolgono ai loro sportelli sono, a differenza che in passato, italiane. E questo è un fenomeno nuovo.

«Certo. E ricordiamo che chi si rivolge alla Caritas è perché, ormai, ha verificato che altri aiuti e reti di prossimità non sono più sufficienti o non funzionano più. Ma da una nostra indagine emerge anche che sono in aumento i senza fissa dimora italiani».

Come intervenire?

«Dobbiamo ricongiungere lavoro e ricchezza, ridare valore al lavoro: è questo che crea ricchezza, non la finanza. Inoltre non si può pensare che il mercato sia indipendente dalla democrazia: dobbiamo ripensare le logiche del mercato. Le politiche del lavoro non possono essere separate dalle politiche sociali. La sfida è ripartire dal lavoro: un percorso più difficile sul piano nazionale, ma più fattibile a livello locale».

Bergamo ha la possibilità di uscire meglio dalla crisi?

«Credo che istituzioni, parti sociali, associazioni locali possano trovare progettualità e soluzioni concrete. Dobbiamo prendere consapevolezza degli errori del passato, ma a Bergamo non manca nulla per ripensare il territorio e riprogettare un nuovo modo di vivere nelle nostre comunità. Il nostro territorio ha qualche possibilità in più grazie al mondo dell’associazionismo e per le reti di prossimità già presenti. Bisogna uscire dalla logica dell’emergenza ed entrare in una logica di progettazione sui tempi lunghi. Alzando lo sguardo dall’immediato».

Gianluigi Ravasio

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