Diversi insieme

Winfrid Pfannkuche
Winfrid Pfannkuche

Dopo le interviste al teologo Pierangelo Sequeri e al sociologo Zygmunt Bauman, proseguiamo la nostra inchiesta sul presente e il futuro dell’esperienza religiosa. In questa terza puntata, abbiamo adottato una prospettiva “glocal”, cercando di leggere la situazione di Bergamo su uno sfondo più ampio: nel nostro tentativo ci siamo fatti aiutare da Winfrid Pfannkuche, dallo scorso settembre nuovo pastore della Comunità Cristiana Evangelica del nostro capoluogo.

Pastore, per prima cosa vorremmo chiederle una breve autopresentazione.

«Sono nato nel 1969 a Osnabrück, nel Nord della Germania. Ho iniziato a studiare Teologia evangelica a Göttingen, interessandomi però molto alla storia del cattolicesimo moderno; per un anno ho frequentato anche l’Università Gregoriana, a Roma. Poi mi sono laureato a Lipsia con una tesi sull’ecclesiologia del Concilio di Trento. Nello stesso periodo ho conosciuto mia moglie, Nadia Delli Castelli, che è italiana, abruzzese di nascita, ma cresciuta nelle “Valli valdesi” del Piemonte».

È entrato così in contatto con i valdesi?

«In realtà li avevo già incontrati durante la mia permanenza a Roma, stringendo amicizie che durano ancora. In seguito, dopo un periodo di “prova” in Piemonte e in Sicilia, ho deciso di rimanere in Italia, appunto come pastore valdese. Io e la mia famiglia – abbiamo tre figlie – siamo stati agli estremi della Penisola: dal Quartiere Noce di Palermo a Prali (in provincia di Torino, a quota 1500 metri), e quindi a Taranto, con un incarico che si estendeva in effetti a tutto il “tacco dello Stivale”. Ho lavorato in contesti diversissimi, dal punto di vista religioso: a Prali quasi tutti i trecento abitanti sono valdesi, mentre in Sicilia e in Puglia la situazione è di “diaspora”. Al termine di questo percorso, mi pare che Bergamo costituisca quasi una sintesi delle esperienze precedenti».

In che cosa il “panorama spirituale” della Germania di oggi differisce da quello italiano?

«In Germania, soprattutto in alcuni Länder orientali, la società è fortemente secolarizzata. A Lipsia, i cristiani formalmente aderenti alle diverse Chiese rappresentano forse un 10 per cento degli abitanti; questo, anche come risultato della “pedagogia” di Margot Honecker, convinta propagandista dell’“ateismo di Stato” nel periodo in cui suo marito era alla guida della DDR. Ora, in Italia, mi godo la situazione di un Paese molto meno secolarizzato, almeno in apparenza, in cui il tema religioso è ancora rilevante nel discorso pubblico, pur con tutte le ambivalenze che questo stato di cose comporta».

Lei è giunto a Bergamo da pochi mesi. Quali sono le sue prime impressioni, circa lo “stato di salute” del cristianesimo dalle nostre parti?

«Le primissime impressioni, ovviamente, riguardano la comunità che mi ha accolto come pastore: i cristiani evangelici qui sono una minoranza, ma sono molto attivi e radicati nel territorio, per via della più che bicentenaria presenza dei protestanti svizzeri a Bergamo. È anche una comunità in crescita, che vive con molta serenità, non ideologicamente, il fenomeno dell’immigrazione: molti dei suoi membri sono ora di origine ghanese, ad esempio. Quanto al mio primo impatto con Bergamo, è stato anch’esso positivo. Il capoluogo è una “città fatta di molte città”, da scoprire poco per volta, e un discorso analogo vale per la provincia. Poi, vi è un altro aspetto che mi pare importante sottolineare: la comunità protestante, affidandomi l’attuale incarico, mi ha chiesto esplicitamente di dar prova di una sensibilità ecumenica. Da molto tempo, qui si è avviato un dialogo non formale con altre confessioni cristiane, a partire dalla Chiesa cattolica: non siamo più alla politica “dell’invito”, per cui, organizzando un convegno, ci si ricordava all’ultimo momento di riservare delle sedie per i rappresentanti di altre Chiese, e magari non si dava loro neanche la parola. A Bergamo, invece, mi pare che si applichino pienamente i principi della Charta oecumenica del 2001, anche grazie all’impegno, sul versante cattolico, di monsignor Patrizio Rota Scalabrini (direttore dell’ufficio diocesano per l’Ecumenismo, ndr.)».

Oltre a questi elementi positivi, ve ne sono anche altri più problematici? 

«Ecco, a Bergamo si promuovono iniziative splendide sul piano del dialogo interconfessionale, come “Molte fedi sotto lo stesso cielo”; ma mi chiedo se questo dialogo poi prosegua in luoghi specifici, anche se in modo meno “spettacolare”. L’attività della Chiesa talvolta può assumere forme appariscenti, ma non necessariamente: perché il suo primo e ultimo punto di riferimento è Dio. È Lui che costantemente dobbiamo cercare, non la nostra visibilità. Quando questa consapevolezza si affievolisce, vi è il rischio che la vita ecclesiale si “professionalizzi”, dividendosi in settori non comunicanti, ognuno controllato da chi è in possesso di competenze ad hoc: si formano così tanti satelliti, orbitanti non si sa bene attorno a che cosa, perché si è perso di vista l’essenziale. Per noi valdesi, un rimedio a questa deriva viene dall’ascolto della Parola, che ci invita a non distrarci, a conformarci allo stile di Dio: uno stile caratterizzato da una “visibilità” sui generis, che si esprime negli unici segni tangibili del battesimo e della Cena del Signore».

Lei ritiene che nella nostra epoca sia facile esercitare la “cura d’anime”? In una precedente intervista di questa serie, il sociologo Zygmunt Bauman sosteneva che oggi la gente, sul piano spirituale, tenderebbe a “curarsi da sé”, praticando una religione à la carte: più che a incontrare Dio, si punterebbe a blandire e a rassicurare l’io.

«Io ritengo che il nostro sia comunque un bel periodo per il lavoro di ascolto e di empatia che la Chiesa è chiamata a svolgere. Questo servizio deve essere attuato gratuitamente, senza fini secondari. Certo, vi sono alcuni che in nome della libertà cristiana impugnano un microfono e ti parlano di Gesù come se volessero venderti un tappeto; ma questo va messo in conto, se abbiamo a cuore la piena libertà di espressione anche in materia di religione. Quanto ai bisogni spirituali della gente, a me pare che le persone, oggi, vogliano essere prese sul serio. Per il catechismo dei giovani adulti della comunità evangelica, ad esempio, ho pensato di invitarli a prender parte a un “laboratorio teologico”, in cui ci si confronti con il grande tema esistenziale della ricerca della verità».

Niente di meno?

«No, niente di meno. Il nostro Catechismo di Heidelberg, di cui quest’anno ricorre il 450°, non inizia con argomentazioni teoriche sull’esistenza di Dio o sui precetti che un cristiano sarebbe tenuto a osservare, ma con la domanda: “In che consiste la tua unica consolazione in vita e in morte?”. E le prime parole della risposta sono: “Nel fatto che col corpo e con l’anima, in vita e in morte, non sono più mio, ma appartengo ai mio fedele salvatore Gesù Cristo”. Da questo punto di vista, l’incontro con Gesù costituisce il polo “oggettivo”, irriducibile alla dimensione “psicologica”, dell’esperienza di fede. Aggiungerei che occorre guardarsi da un ulteriore pericolo, a cui il cristianesimo è da sempre esposto: quello di diventare tema a se stesso; si parla allora dei cristiani e non di Cristo, separando il “dono” dal “Donatore”. In ossequio al motto divide et impera, questa separazione può sfociare in una forma di imperialismo o di fondamentalismo religioso: in nome della propria appartenenza cristiana si cerca di colonizzare dei territori o – peggio ancora – le coscienze».

Tornando ai buoni rapporti stabilitisi da tempo tra cattolici e protestanti, a Bergamo. Che cosa auspicherebbe per gli anni a venire?

«Che non ci si limitasse a coltivare ciascuno il proprio orticello. Pensiamo, ad esempio, alle celebrazioni dell’”Anno giovanneo”, volte a ricordare l’apertura del Concilio e il 50° della morte di Giovanni XXIII. Noi protestanti che cosa dovremmo fare, in una circostanza del genere? Starcene in disparte, aspettando che quest’anno passi? Spero che non andrà così, che vi sarà ancora l’opportunità di dar vita a un confronto. E i cattolici, che cosa pensano delle nostre idee sulle questioni etiche relative, ad esempio, al “fine vita” e all’omosessualità? Non dovrebbero sentirsi invogliati a discuterle, anche partendo da posizioni diverse?».

Guardando anche oltre i confini della Bergamasca: che cosa spera, lei, per il cristianesimo del prossimo futuro?

«Che sappia sviluppare il dialogo ecumenico. L’ecumenismo non comporta che le singole confessioni rinuncino alla propria identità, o che la annacquino: non si tratta di realizzare l’“unità” – termine che ai miei orecchi suona ideologico e poco biblico –, ma una comunione in cui le differenze siano custodite, non cancellate. Nel capitolo 17 del Vangelo di Giovanni, Gesù prega il Padre perché i discepoli “siano una cosa sola – egli dice -, come noi”; appunto, “come noi”: dove la comunione tra il Padre e il Figlio non si riduce a una grigia identità».

Nel 2017 cadrà il quinto centenario degli inizi della Riforma protestante: sempre in prospettiva ecumenica, come converrebbe celebrarlo?

«A mio avviso, non bisognerebbe ritornare sugli albori della Riforma solo per fare ammenda degli errori passati e per chiederci perdono a vicenda, tra cattolici e protestanti; si tratta invece di leggere in quegli eventi pure una “chiamata”, un insegnamento valido ancor oggi per tutti noi. Del resto, il principio dell’“unità nella diversità” è stata l’idea portante della Concordia di Leuenberg, il documento teologico sottoscritto nel 1973 da luterani e riformati (i secondi sono i membri delle Chiese che si richiamano alla riforma calvinista, ndr.): questo accordo ha costituito una delle tappe fondamentali – anzi, finora l’unico “successo reale” – nella storia del movimento ecumenico».

Lei, poco fa, accennava al dogma trinitario, una verità di fede talvolta considerata alla stregua di un bizzarro “rompicapo teologico”: Immanuel Kant, ad esempio, scriveva che dalla dottrina della Trinità «non si può ricavare nulla di rilevante, sul piano pratico». E tuttavia, non è proprio questa dottrina a contraddistinguere il cristianesimo, rispetto agli altri monoteismi? Il dio di Gesù è uno, ma non è solo.

«La fede nella Trinità non può non incidere fortemente sulla condotta di vita del cristiano. Qui ci viene detto che Dio è in se stesso una comunione di persone, e non un monarca solitario e triste, che si limiterebbe a guardare la terra dall’alto e a inviarvi, di tanto in tanto, qualche emissario. Anche sul piano criteriologico, la dottrina della Trinità ha un ruolo rilevante: il Dio uno e trino si sottrae ai nostri tentativi di “identificarlo”, di stabilire una volta per tutte “come Egli funzioni”. L’indagine delle cause efficienti di un certo fenomeno naturale idealmente ci mette nella condizione di dominarlo a nostro piacimento. La Bibbia, invece, ci parla di un Dio che liberamente propone all’uomo un’alleanza; questa non può essere “gestita”, ma solo accettata e vissuta, nella fede e con gratitudine. Ecco perché io non mi preoccupo eccessivamente della questione del destino del cristianesimo, della sorte a cui potrebbe andare incontro in un futuro prossimo o remoto: la cosa è nelle mani di Dio, non dipende dalle nostre capacità di pianificazione».