Reverendi permettete

Gentile direttore,

vorrei porre a lei e ad altri illustri uomini di Chiesa un quesito, che è certo una provocazione spiazzante, politicamente scorretta: lei, voi, siete proprio convinti che la vostra (implicita e pertanto inespressa) proposta di politica social-economica (termine improprio, me ne rendo conto) sia realistica? In un mondo ideale, che non è per l’oggi, dobbiamo essere (detto sottovoce, al riparo da orecchie indiscrete) tutti più poveri o ragionevolmente più ricchi?

CARITÀ E COSTITUZIONE

Mi spiego: qualsiasi persona di buon senso non può non condividere l’analisi che la Grande Crisi colpisca i più deboli e i più bisognosi e in definitiva coloro che sono incolpevoli. Si può anche aggiungere che il soccorso nei confronti di questi ceti non sia solo una questione solidaristica, ma chiami in causa pure i diritti. Diritti costituzionali, peraltro: da difendere senza se e senza ma e possibilmente con qualche riforma. La carità non può però essere un surrogato della Carta costituzionale. Sono parole, queste, che stanno in un perimetro scontato per chi crede in una democrazia sociale e progressiva: libertà e giustizia sociale si tengono, come insegnano le culture politiche che hanno redatto la Costituzione.

SOBRIETÀ E POLITICA

Dunque, date per condivise queste premesse, vorrei cambiare spartito per superarlo. Sacerdoti di varia umanità, cattolici di variabile intensità ci ricordano ormai da anni, un po’ alla Pasolini, che è cosa buona e giusta riscoprire la sobrietà, i costumi antichi e che il consumismo sfrenato è avventura disdicevole e che contribuisce all’anomia della società. Probabilmente questi sermoni non sono ancora una declinazione pauperistica, ma sanno molto di tradizionalismo da piccolo mondo antico o da piccola patria alpina, di un’ipotesi di ordine sociale per via gerarchica e di censo (chi può comunque spende e chi non può non spende). Capisco il fascino che la teoria della decrescita (oggi obbligatoriamente infelice) esercita sull’associazionismo cattolico ed è corretto ritenerla una sorta di coscienza critica della società dell’eccesso.

CRISI E MORALE

Ma non andrei oltre, nel senso che dubito possa essere una politica di governo, ancorchè a tendenza snobistica. Il discorso porta lontano e si potrebbe discutere all’infinito anche sul rapporto fra ambientalismo e industrialismo. Il diavolo, si dice, si nasconde nei dettagli, ma nel nostro caso la manina diabolica sta sulla pista d’atterraggio, nel momento in cui le anime belle scendono dall’empireo e impattano la dura realtà terrena. Perchè la vita di tutti i giorni, magari irrobustita da qualche buona lettura, ci dice che la Grande Crisi non è l’esito esclusivo della malvagità di pochi arricchiti ribaldi, ma il risultato di politiche sbagliate, se non vogliamo chiamarle con il loro nome (liberiste o neoclassiche). Non è una questione di etica, di morale o di semplici comportamenti riprovevoli, ma di una corrente di pensiero fallimentare cresciuta nelle business school che nei periodi di vacche grasse e in quelli attuali di recessione e di quasi deflazione s’è alimentata di bassi salari, di minori diritti e tutele per i lavoratori e di una precarietà che ancor prima di essere occupazionale era e rimane esistenziale.

SE NON SI SPENDE C’È CRISI

Le reiterate e impunite scorribande dei mazzieri della Grande Finanza hanno falcidiato il ceto medio (la fanteria della democrazia), che s’è trovato impoverito nel suo potere d’acquisto e nella sua capacità di consumo. Stiamo assistendo, dal crac del 2007, al crollo dei redditi, dei salari e dunque dei consumi. Ma tutto questo, almeno per chi ritiene che la pedagogia di quel genio mondano di John Maynard Keynes non sia passata invano, non piove come un meteorite inerte dal cielo e non è neppure soltanto il terminale di un’ingordigia della società parallela degli uomini del business. Assistiamo, caro direttore, in società sempre più disuguali a quello che il Nobel Paul Krugman, capofila degli economisti liberal e certo un impareggiabile guastafeste, ha definito recentemente il «paradosso della parsimonia»: le persone risparmiano danneggiando l’economia. Non può sfuggire agli uomini di Chiesa, se vogliono restare con i piedi per terra, che una delle patologie dell’Europa, cioè il populismo della nuova destra e di una certa sinistra radicale, è stato veicolato dal rigore a senso unico della Germania in un contesto europeo dove c’è sempre qualcuno più uguale degli altri: esporta verso i Paesi emergenti e non consuma, tenendo bassi i salari, vende e non investe. Anche da qui (bassi prezzi, bassi salari) nasce il rischio di deflazione in Europa.

CETO MEDIO E CONSUMI

Pun tempo da riscoprire, ma nella brutale quotidianità di oggi. Per cui pongo a lei, caro direttore, il quesito: il buon cittadino e il buon cattolico (i due concetti sono laicamente inscindibili) devono poter spendere (nei limiti di reddito delle condizioni date) per il bene del Paese o non devono farlo in ragione di un’autoflagellazione punitiva (hai sbagliato e quindi paghi), come par di capire da taluni ragionamenti cerebrali di una parte del mondo cattolico militante, o come si sente in alcune omelie domenicali?

Grato per la cortese attenzione,

le porgo distinti saluti