Educare alla vita

Educare oggi vuol dire fare i conti con “il tempo dell’incertezza” e misurarsi con l’influenza delle nuove tecnologie, di Internet, dei social network. Un tema complesso, delicato, interessante: ne parla Ivo Lizzola in quest’intervista a cura di Marta Iaccarino – Fondazione “La Pira” Firenze.

Nota un cambiamento nelle esigenze educative dei giovani negli ultimi anni? Da cosa è causato?

«Le giovani ed i giovani di questi anni hanno tutta la loro biografia disegnata nel tempo dell’incertezza, nei decenni nei quali la convivenza, le storie delle persone, delle famiglie, delle comunità vivono un esodo. Lasciate le certezze, le identità, la stabilità delle regole, le forme organizzate del vivere, del recente passato, si è iniziato un cammino difficile e affascinante. Verso un nuovo rapporto con le risorse, il lavoro, l’economia; verso nuove forme del diritto, del riconoscimento della diversità, degli impegni reciproci; verso un nuovo orientamento dei saperi, delle tecnologie, dei poteri; verso una nuova fioritura di senso e di valore tra tradizioni rivisitate, incontri tra culture e vita nuova nascente. La generazione adulta vive più spesso l’ansia verso il nuovo e l’incerto, legata ai pensieri e alle sicurezze delle terre lasciate, piuttosto che l’atteggiamento generativo del “rimettere al mondo il mondo” come dice María Zambrano. I giovani e le giovani si ritrovano, invece, a disegnare la novità della loro vita personale e della loro avventura come generazione mentre disegnano (con tanti altri e incontrando diversità di intenzioni) il cammino del mondo. Né più, né meno. Nell’esodo essi affidano agli adulti domande di orientamento e di senso, di conoscenza e di lettura della realtà che cambia; la loro ricerca di incontri buoni e di possibili condivisioni, di pratiche e di capacità per affrontare e trasformare la realtà, per dare inizio a tratti nuovi di cammino e di vita comune. Nell’esodo si pongono con forza, di nuovo, le domande di giustizia (lasciare indietro i “lenti”? Affidare tutto agli “eccellenti”?) le domande sul legame di fedeltà e sul patto di convivenza, le questioni della cura e della reciprocità (le vulnerabilità le accogliamo? Come reggere la prova e la sofferenza?)».

Ci sono domande forti che noi adulti dovremmo farci.

«Riusciremo a coltivare per chi cresce accanto a noi la forte tensione al sapere e al saper fare, insieme alla responsabilità, al dovere che tale sapere comporta? Riusciremo a costruire fiducia nelle capacità generative, nel senso di giustizia e nel desiderio di bontà, nelle potenzialità buone e costruttive dell’incontro, della reciprocità, della dedicazione e del servizio? Insieme ad una lettura attenta delle dinamiche, contraddittorie, attivate dalle fragilità che le persone portano dentro, delle ambivalenze che le relazioni contengono, dalle separazioni e dagli asservimenti che gli esercizi di potere e di seduzione rischiano di creare? Riusciremo a costruire per chi cresce accanto a noi un avvio verso un orizzonte di futuro augurabile, possibile e umano, pur schiacciato nel tempo dell’incertezza e dell’angoscia? Accogliendo tra noi, tra noi e loro,la grazia di un sentire la speranza e il desiderio buono di pienezza?».

Come si può educare all’uso corretto dei nuovi media (internet, social network etc.)?

«Cominciamo a dire che anche nell’esodo resistono miti ed idoli. Servono a semplificare, consolare, togliere da responsabilità. Il mito della tecnologia che risolverà tutto, metterà tutto sotto controllo, solleva dalla questione del dover prendere decisioni, del condividere le scelte, del cogliere il valore delle cose (e delle persone, della vita), è mito diffuso. Per l’educazione è un mito pericoloso perché riduce l’incontro e l’apprendimento a scambio, utilità, prestazione, addestramento, riduce le domande a soluzioni, a consumi, a bisogni da soddisfare. Paul Ricoeur, uno dei grandi filosofi del secondo Novecento annotava nei suoi ultimi scritti che la nostra cultura, nella misura in cui si conforma ad un modello tecnologico, emana oblio. “L’utente dell’attrezzo e della macchina non ha memoria”, scrive, “lo strumento esaurisce nella sua funzione attuale, abolisce il proprio passato nell’uso che se ne fa nel presente”. Siamo davanti ad una sfida culturale prima ancora che educativa. La “disponibilità”  delle cose e del mondo, come beni di consumo, ha diffuso un distorto senso della autonomia nelle scelte, una libertà immaginaria e irresponsabile. L’accelerazione contemporanea è rivolta al consumare cose ed esperienze, nell’illusione che questo sia crescere, o ritrovarsi. Diverso, però, è costruirsi come storia ed esperienza di vita, maturando la capacità di “saper vivere”. Non è, questa, una acquisizione rapida, chiede lentezza e maturazione, chiede ritorno sulle cose, sui testi, sulle abilità. Dentro le storie e i contesti di vita. I nuovi media ed i social network possono essere utilizzati e vissuti come un modo di abitare “immediatamente” tutto il mondo, il presente, le relazioni, le emozioni, le comunicazioni e le possibilità. In uno stordimento di immagini, di frammenti di identità e di relazioni polverizzate in una “velocità” di reazioni e pulsioni. Ma possono anche essere grandi e ricchissimi strumenti per approfondire e dilatare le storie e i contesti di vita, facendo partecipare con cura e passione alle storie gli uni degli altri, responsabilmente e con coraggio. Come nelle primavere arabe, o nei sottili e ramificatissimi processi di maturazione dei diritti e delle libertà tra i giovani cinesi, birmani o iraniani. I nuovi media e i social network possono far conoscere e confrontare, possono far scoprire la comune umanità e la fraterna condivisione di sogni comuni tra palestinesi e israeliani. Espongono, svelano, connettono: sono delicati e ambivalenti, possono essere pericolosi strumenti di plagio e stordimento o strumenti di creazione, coscienza, attivazione di presenza buona. Dipende dalle storie che le donne e gli uomini raccontano, dalle esperienze tra le generazioni, dalla vitalità della democrazia, dalla forza della testimonianza, della riflessione, del silenzio pensoso, dell’ascolto, della cura della bellezza, del gusto dell’incontro con l’altro che sappiamo coltivare».

 A Lampedusa Papa Francesco ha parlato dell’indifferenza come il problema più grande della modernità, questo non può essere che un problema educativo: come educare alla cura dell’altro e alla solidarietà oggi?

«Papa Francesco sta svolgendo una fondamentale funzione paterna in questi nostri anni di rischio di spaccatura del legame tra le generazioni. I suoi richiami critici sono sempre anche richiami alla libertà ed alla responsabilità. Indica problemi ma da dentro gesti di testimonianza, da luoghi di umanità che indicano cammini generativi di forme di vita nuova, di conversione, di pur faticosa condivisione. L’indifferenza, l’atrofia del sentire (non si sente più l’altro e neppure la bellezza), la fuga dalla libertà si legano come una specie di illusoria rete protettiva di fronte all’evidenza della vulnerabilità delle donne e degli uomini, quella che una malintesa modernità voleva vincere ed eliminare. Quella vulnerabilità che riemerge, invece, al cuore dell’umano, e dell’affidamento reciproco tra persone, reti familiari, generazioni. Prestissimo bambine ed adolescenti fanno oggi i conti con la fragilità e la cura, e con il morire, nelle loro storie familiari. Quanti figli si fanno padri e madri delle loro madri e dei loro padri infragiliti! La parabola della cura interessa la vita di tanti, di tutti, svelando il senso nascosto, il dono, la preziosità della presenza fraterna. La comune filialità, potremmo dire. Allora si tratta di stare attenti e aperti a tutti i luoghi nei quali le donne e gli uomini vivono transizioni, passaggi, smarrimenti, ripensamenti delle loro scelte. Incontrare le avventure umane che stanno nel viaggio, è fonte di apprendimento. Stare nel viaggio vuol dire non trovare (né cercare con troppa ansia) risposte, risolutive, e una volta per tutte, a questioni aperte e non già definite. Chiede di stare in storie e condizioni che ti portano a non (pensare di poter) finire di capire, di conoscere, di giudicare. Questo appare più chiaro nelle periferie delle città e nelle concrete trame quotidiane del vivere che cerca la vita. Lì, vicino ai servizi, alle progettazioni sociali, all’esercizio delle professioni sociali, magari nella scarsità di risorse e di ragioni: lì si spezzano le illusioni senza dolore ed evaporano le attese senza coraggio, con cui tante vite fragili e tante vite giovani provano ad evitare l’attraversamento. Lì, l’essere partecipi della propria avventura umana dentro l’avventura del mondo rimanda a molteplici ricomposizioni: tra mente, affettività e azione; tra mondo interiore e mondo in cui si vive; tra la propria soggettività e l’identificazione nel noi; tra la prospettiva politica e la prospettiva etica ed esistenziale. L’incontro con la fragilità, con la diversità, con la colpa, con lo smarrimento mette alla prova le donne e gli uomini impegnati nell’azione sociale, nella cura e  nell’educazione.  Ma sta, forse, facendo emergere una nuova profondità nel sentire l’altro, una nuova evidenza del limite nell’esercizio di saperi e poteri, una pratica di inediti contesti di relazione e di responsabilità. Ispirate al principio etico del «nessuno escluso» oggi si sviluppano esperienze di «fraternità fra sconosciuti». Queste fraternità inclusive mentre permettono ai cittadini di assolvere al compito di stare dentro le fratture dell’umano fino a intravedere «possibilità» di vita, sollecitano l’immaginazione e la responsabilità sociale e politica perché si coltivino nuove forme partecipate di resistenza umanistica, dentro e i oltre contrasti, i conflitti, le esclusioni».

 Secondo quali metodi e su quali temi dovrebbe essere impostata la formazione continua degli educatori?

 «Gli educatori oggi non possono che essere dei ricercatori riflessivi, dei “passatori”, con il senso della testimonianza. Fedeli ed attenti alla vita, dove è provata e dove nasce, lucidi nel pensiero e nella ricerca condivisa di interpretazioni e di responsabilità. Allo stesso tempo con la leggerezza di chi sa che condividerà un tratto di strada – significativo, pieno di prove pratiche, di esperienze, di pause per capire, per sentire che cambiamenti stanno avvenendo dentro ognuno –  fino ad una soglia, ad una frontiera sulla quale lascerà l’altro. Inviandolo su terre nuove, verso un suo inizio, un cammino suo e d’altri. Su quel tratto di strada si procederà, cercando, trovando, provando le “competenze per la vita”, preziosa consegna di chi lascia, prezioso lascito per chi si avvia. Proviamo a indicarne alcune, che paiono affiorare nell’incontro con la diffusissima trama di esperienze di prossimità, di mutualità e cura, di ospitalità e accoglienza, di invenzione del quotidiano che legano generazioni, reti familiari, persone fragili e persone capaci. In pratiche di educazione alla vita. Educare ed educarsi, “sapere trafficare con al propria vulnerabilità” ridisegnandola con altro di sé, giocandola nelle relazioni con altri. Educare ed educarsi a non oscillare tra libertà immaginaria e abbassamento dell’orizzonte delle attese, tenendo il sogno dentro la realtà, e “leggendo” il sogno della realtà. Educare ed educarsi a riorganizzare sempre le condizioni di vincolo e di possibilità nella vita personale e nella convivenza, usando pensiero strategico, equilibrio affettivo e tenuta psicologica. Educare ed educarsi a farsi testimoni del proprio cambiamento, ricomprendendo svolte e momenti nascenti, cogliendone  le forse di legame, e di slegame. Educare ed educarsi  a vivere  “salti di piano”, dislocazioni umane nel tempo e nello spazio, acquisendo le percezioni di un sé che cambia in relazione al contesto che viene trasformato e si trasforma. Specialmente là dove si prova a vivere, dove si resiste, o dove si inizia. Educare ed educarsi a lavorare riflessivamente sul proprio sentire, sui vissuti e le emozioni, per “sapere cosa farsene”, per dare destinazione e senso alle proprie energie interiore. Educare ed educarsi a “mettersi in sicurezza reciproca”, a vegliare gli uni sugli altri, responsabili, affidabili e capaci di fiducia di esposizione. Affinando il sapere stare in reciprocità asimmetriche. Educare ed educarsi alla dimensione simbolica, a cogliere nel tempo i rinvii, i gesti e le parole “per sempre”, le consegne ed i lasciti, quelli ricevuti e quelli sui quali impegnare. Educare ed educarsi alla capacità immaginativa di visione, ascoltando l’attesa di donne e uomini, e delle cose, l’annuncio che serbano nel loro profondo. Come pozzi profondi che portano il cielo nel cuore profondo della terra».