Quirico a Seriate

Domenico Quirico, inviato de “La Stampa” in Siria giovedì 5 alle 20,45 sarà a Seriate per un incontro sul tema “Più forti dell’odio” promosso dall’associazione culturale Il greto e dalla parrocchia di Seriate. Quirico racconterà l’esperienza drammatica del rapimento in Siria: le emozioni, le paure, gli incontri, la fede e i retroscena. Un testimone, un giornalista di trincea, che vale la pena di incontrare.

“Sono stato sequestrato quattro volte – ha detto di recente Quirico, che sta girando in giro per l’Italia per raccontare la sua esperienza -. Nel mio mestiere essere sequestrati o uccisi vuole dire essere inghiottiti dalle storie che raccontiamo. Fino a quando ci sarà qualcuno che correrà questo rischio inevitabile e necessario, il giornalismo esisterà. Ma chi te lo fa fare? Mi chiede qualcuno, il mio direttore ogni tanto. Allora io gli ho detto che se non raccontiamo questa storia, questo grumo della Storia – 120mila morti civili ammazzati – perché facciamo uscire i giornali domani? E per raccontare questo, andiamo su Internet e prendiamo le testimonianza di un siriano che non conosciamo? Allora il direttore mi ha detto sì, vai lì. E così si giustifica il pezzo di carta che la gente compra. Faccio questo mestiere con passione. La mia vita sono le persone che ho incontrato, e attraverso le parole ho restituito la loro natura. In ognuno dei luoghi ho trovato il meglio e il peggio degli uomini, santi e gaglioffi, e la mia vita sono loro che sono diventati parole. La scrittura giornalistica che è qualcosa di assolutamente unico e esaltante, che non è la scrittura di un libro. Qualcuno che scrive un libro, anche di cucina, ha sempre l’idea di scrivere qualcosa che resta lì, e lo scrive per l’eternità. La temporaneità, la fragilità immensa dello scrivere, è lì lo straordinario. E so che scomparirà nel giro di 24 ore”.

“Da quando sono tornato – continua – parlo di me, ed è l’atto più antigiornalistico che possa commettere. I giornalisti non devono mai parlare di sé, devono raccontare la storia degli altri. Perché io parlo di me e dei miei cinque mesi in Siria è perché questo serva per illuminare su un’altra storia: sui 20 milioni di siriani, di quelli che stanno morendo. I numeri non sono niente, perché non parlano, non urlano, non gridano. L’operazione che faccio quando racconto di quello che accade oggi in Siria è di raccontare di ogni numero di questi 120 mila morti un volto, una identità. Nel momento in cui ognuno di questi 120 mila diventa un essere umano, allora possiamo incominciare a pensare cosa fare della Siria di oggi. 120 mila esseri umani spazzati via. Soprattutto gente disarmata, gente che cercava di arrivare al giorno dopo, per scavalcare il muro della morte. Questa è la tragedia di quel popolo. “Perché allora vai lì?” Mi chiedono. “Per trasformare quei morti in esseri umani” è la mia risposta”.