Call center

L’operatore del call center è diventato il simbolo dei lavoratori precari: l’unico lavoro sempre disponibile, ma anche il più incerto, denso di trappole, poco valutato. I dati Istat sulla disoccupazione dei giovani sono preoccupanti: tra quelli da 15 a 24 anni il 41,2% sono senza lavoro, record storico assoluto.

Nel terzo trimestre del 2013 i senza lavoro tra i 18 e i 29 anni sono oltre un milione. Ciò significa che più di un disoccupato su tre, in Italia, ha meno di 30 anni. E se qualche occupazione si trova, è per lo più precaria e sottopagata. Come, appunto, l’operatore di call center: «Ho lavorato in un call center della bergamasca da settembre 2011 fino a luglio – racconta Claudia, 26 anni -, ora sono in stand by. L’ambiente in sé non è male: quasi tutti giovani e universitari, ma si trovano anche persone con famiglia, che ultimamente si lamentano perché al momento del colloquio era stato loro garantito un monte ore a settimana, ma negli ultimi mesi è stato quasi dimezzato. La cosa assurda è che chiamano nuove persone». Claudia ha lavorato come operatrice «outbound» (chiamate in uscita) principalmente sondaggi di mercato e vendita; nell’ultimo periodo anche «inbound» (chiamate in entrata) per la vendita di biglietti del treno riguardante tratte particolari. «C’era anche un servizio in cui bisognava chiedere il consenso al cliente per il trattamento dei dati personali, per poterli ricontattare ed offrire loro finanziamenti. I supervisor premevano affinché si omettessero al cliente certi aspetti, e si riuscisse a registrare il consenso: porta più soldi all’azienda. Nessuno vuole fare servizi del genere, perché ci si sente disonesti, ma si fa quello che c’è». Il tutto pagato un fisso all’ora, ma senza la garanzia di lavorare le stesse ore di settimana in settimana.

Sara, 21 anni, si trova appesa a un filo: il suo contratto è a tempo indeterminato a chiamata, ma di fatto è da ottobre che non sta lavorando. «Non posso fare richiesta di disoccupazione, né usufruire di alcune cure sanitarie gratuite. Nell’attesa che mi affidino turni al call center, sto inviando curriculum su curriculum, per lavorare come cassiera, barista, qualsiasi cosa, ma nulla». In realtà qualcuno interessato al suo profilo c’è, ma si tratta ancora di call center del nostro territorio: «Mi hanno offerto 350 euro al mese per 40 ore a settimana; un’altra azienda paga se si riesce a fissare un totale di appuntamenti all’ora. Non ho accettato, ho un amico che ci ha lavorato di recente: se a fine settimana raggiungi i 100 appuntamenti fissati, pagano, altrimenti nulla. Lui era arrivato a 97; le chiamate partono in automatico e gli ultimi numeri erano quasi tutti inesistenti o irraggiungibili, così non è arrivato all’obiettivo: sarà un caso?». Anche Sara sottolinea il fatto che nonostante ad altre colleghe siano state diminuite le ore, passando dalle 36/38 a settimana alle 8/10, continuino i colloqui per assumere studenti, grazie agli incentivi che le aziende in questo modo possono ottenere. E conclude con amarezza: «Un precario non può permettersi di fare progetti neanche a breve termine». Non manca la letteratura sul tema: ai giovani precari dei call center è dedicato il libro «Yes we call – vita di un operatore call center» di Gabriele Fabiani (Edizioni Periferia, 108 pagine). Un libro-denuncia, «per capire chi c’è dall’altra parte del telefono», (con tanto di fotocopie di buste paghe e contratti) di questo «mondo», che Gabriele, 27enne, ha vissuto in prima persona.