Chiesa e povertà

Cercheremo di vivere secondo il livello di vita ordinario delle nostre popolazioni per quel che riguarda l’abitazione, il cibo, i mezzi di comunicazione e tutto ciò che vi è connesso (Mt 5,3; 6,33.34; 8,20).

Rinunziamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente nelle vesti (stoffe di pregio, colori vistosi) e nelle insegne di metalli preziosi (queste insegne devono essere di fatto evangeliche, cf. Mc 6,9; Mt 10,9.10; At 3,6).

Non avremo proprietà né di immobili né di beni mobili né conti in banca o cose del genere a titolo personale; e se sarà necessario averne, le intesteremo tutte alla diocesi o a opere sociali o caritative (cf. Mt 6,19.21; Lc 12,33.34).

Affideremo, ogni volta che sia possibile, la gestione finanziaria e materiale nelle nostre diocesi a un comitato di laici competenti e consapevoli del loro compito apostolico, per poter essere meno degli amministratori che dei pastori e degli apostoli (cf. Mt 10,8; At 6,1-7).

Rifiutiamo di lasciarci chiamare oralmente o per iscritto con nomi e titoli che esprimano concetti di grandezza o di potenza (per esempio: eminenza, eccellenza, monsignore). Preferiamo essere chiamati con l’appellativo evangelico di “padre”.

Sono i primi cinque punti del “Patto delle catacombe”, il documento sottoscritto, nelle catacombe romane di Domitilla, da una quarantina di padri conciliari, vescovi e cardinali di diversi continenti, il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Concilio Vaticano II. Con questo documento, che venne consegnato a papa Paolo VI dal card. Lercaro e successivamente firmato da altri 500 vescovi, i firmatari si impegnavano a mettere i poveri al centro del loro operato pastorale ed episcopale e a condurre essi stessi una vita nella maggiore povertà possibile. Il testo, a distanza di quasi cinquant’anni, sta godendo di un’insolita fortuna e circola con insistenza sulla rete e in molti luoghi di confronto ecclesiale. Toglie dalla periferia un tema – Chiesa povera e di poveri e non solo per i poveri o con i poveri – che negli ultimi decenni pareva essere stato dimenticato ed espunto dall’agenda delle nostre comunità cristiane. Chi ne parlava, per lo più da territori di margine, se non di esilio, rischiava di passare per nostalgico, cultore di un’utopia cancellata. Eppure il Concilio – sulla questione – era stato chiaro. «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la chiesa e chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza» (“Lumen gentium”, 8); e ancora: «La chiesa si serve di strumenti temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile. Anzi, essa rinuncerà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza» (“Gaudium et spes”, 76).

Il silenzio e le omissioni sul tema sono state accompagnate, talvolta, da scelte dubbie se non, in alcuni casi clamorosi, equivoche e lontane dalla logica del Vangelo. Poi è arrivato un Papa “dalla fine del mondo” che ha voluto prendere il nome di Francesco, come il minore di Assisi, che fin dall’inizio del suo ministero ha proclamato: “Ah, come vorrei una chiesa povera e per i poveri!” (Udienza ai rappresentanti dei media, 16 marzo), l’ha ribadito in successivi interventi e l’ha scritto recentemente nell’Evangelii Gaudium: «Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri» (198). Nella sua pedagogia dei gesti, tesa a mostrare “il potere dei segni” più che “i segni del potere”, Papa Francesco sta obbligando la Chiesa e i cristiani a non fermarsi allo spietato spento realismo e a chiedersi se e come sia possibile una Chiesa povera.

COSA VUOL DIRE PER NOI?

La questione è interessante e riguarda anche noi, chiesa e cristiani di Bergamo. Non si vuole certo reclamare e sostenere forme pauperistiche, magari accompagnate da giudizi superficiali e ideologici di demonizzazione del denaro e delle proprietà. Però è indubbio che la povertà non è un consiglio riservato ad alcuni ma un’esigenza evangelica ineludibile per tutti i cristiani. E dunque non è una affatto una questione marginale. Certo, lo sappiamo, non c’è un unico modo che norma le forme storiche della povertà che già nel Nuovo Testamento si presentano numerose e differenziate. Però da come viviamo la povertà dipende la forma e lo stile che la chiesa si dà nella storia per testimoniare, con credibilità, la vicenda di Gesù di Nazareth. Non sarebbe il caso quindi di cominciare a interrogarsi, ciascuno per la parte che gli spetta, su come sia possibile tradurre oggi tutto questo? E se non basta dire che si fa e si ha tutto “a fin di bene”, forse è il caso – in un confronto ecclesiale autentico, non paludato – elaborare criteri che permettano di custodire, dentro le cose del mondo, la “differenza cristiana”.

IL TUO PARERE

Racconta la tua Chiesa povera. La Chiesa di oggi che cosa dovrebbe fare per essere davvero in stile con quel sogno dei padri conciliari?