Difficile speranza

I giorni non sono uguali, mai, eppure si assomigliano tutti, le rotture del filo di continuità sono rare. Ed ancor più raro che lo sbrego nell’arazzo dei giorni accada proprio a cavallo tra il 31 dicembre e il 1° gennaio. Eppure è proprio, in quelle ore, che avvertiamo il pulsare di un’attesa/speranza di una novità. Segnata dagli eventi naturali, dal ciclo della nascita e della morte, dal sorgere del sole e della luna e del loro tramontare, dall’avvicendarsi delle stagioni, da eventi catastrofici quali i diluvi, le eruzioni vulcaniche e i terremoti, la storia degli uomini è divenuta consapevolmente tale solo quando essi hanno incominciato a trasformare questi eventi in un segna-tempo storico, attorno al quale annodare le vicende individuali e collettive, il vecchio e il nuovo. Non è, tuttavia, la natura che ha generato la storicità dell’esistenza umana, ma è il carattere temporale/storico di questa che ha conferito un significato umano e ha dato un ordine a quegli eventi naturali.

Il punto di rottura e di una novità «lungo tutto il migrare dei giorni» è definito dagli uomini. Cesare Pavese fa la stessa constatazione nel “Mestiere di vivere”: «Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?». Siamo in attesa di un compimento? Certo, non possiamo farne a meno. In “Feria d’agosto” egli descrive la fenomenologia dell’attesa: «Non si sfugge alla solitudine e all’attesa (…). Che cosa deve dunque accadere? (…). Ma siamo tutti inquieti: chi seduto e chi disteso, qualcuno contorto, e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa, che ci fa trasalire la pelle nuda».

LA RUOTA DELL’ETERNO RITORNO

Da quando gli uomini hanno tentato di dare un senso alla storia, di comprenderne la direzione, quella dell’attesa/speranza non è stata la prima risposta. Il pensiero greco, cioè il livello più avanzato di pensiero umano in questa parte del mondo, e il pensiero orientale hanno costruito le categorie dell’eterno ritorno. La storia e la vita sono una grande ruota che torna cigolando sempre su di sé, da dove era partita. Il pensiero messianico ebraico-cristiano ha spezzato il cerchio, ha aperto la storia, ha immesso nella materia storica ribollente l’enzima dell’attesa e della speranza. La filosofia neo-stoica e neo-epicurea di oggi, sulle orme di Nietzsche, ritiene che questa sia una malattia mortale che Gesù ha inoculato nella civiltà occidentale. E che ce ne dobbiamo liberare. Del resto, la condizione spirituale del mondo contemporaneo non aiuta a sperare. Finite le grandi narrazioni ideologiche del progresso e della liberazione, il posto delle quali è stato preso dai racconti distopici circa il futuro, che forse verrà, così che la storia sembra diventata una fonte prossima all’inaridimento, è diventato più difficile attendere e sperare. Se poi il mondo è l’Italia di questi tempi, lo spirito pubblico appare assai depresso per molte valide ragioni socio-politiche, che pesano sui singoli. Se domina l’infelicità pubblica, la felicità privata fa fatica.

L’UOMO, UN FIORE CHE SBOCCIA

Eppure… se si guarda nel cuore dell’uomo, l’attesa/speranza è ontologicamente fondata nella sua essenza. Aristotele ha scritto, a proposito delle tendenze più profonde dell’essere umano, di “eudaimonia”, che – nella traduzione ormai generalmente condivisa di E. Anscombe, filosofa britannica, – suona “fioritura umana”. L’uomo è un fiore che sboccia. Nel Libro di Giobbe si usa un’immagine analoga, sebbene sullo sfondo di un pessimismo più radicale: «qui quasi flos egreditur et conteritur»: l’uomo sboccia come un fiore e viene calpestato. Per quanto possa accadere dentro e fuori di noi, per quanto attorno il mondo possa diventare un luogo poco ospitale e indecifrabile, noi siamo speranza. Per usare uno splendido ossimoro di Papa Francesco: «Solo l’inquietudine dà pace». Dice sempre Pavese: «E’ non aspettar niente che è terribile». Dispersi nel mondo, facciamo fatica a tornare dentro di noi, al cuore dell’uomo. La speranza è, in primo luogo, una virtù umana, che quella teologale può solo rafforzare, non sostituire.