Rapper e ora docente, Amir Issaa, usa un metodo che cattura i giovani per abbattere ogni genere di barriera: il rap. Dalle scuole del quartiere di san Basilio, periferia est della capitale, questo progetto è arrivato fino in Sicilia. “Il rap è un modo per dialogare. È fondamentale la collaborazione con i professori, instaurare un dialogo che consenta ai ragazzi di tirar fuori quanto hanno dentro. Così si evitano la creazione di barriere discriminanti, la violenza, il bullismo, il razzismo”.
Immigrato di seconda generazione, lei è figlio di una italiana e di un egiziano: la ricchezza di due punti di vista.
“Devo ringraziare i miei genitori per questo. Non mi hanno mai imposto nulla. Ho sempre percepito anche una semplice notizia al tg da due punti di vista. Anche per la religione è così. Padre musulmano e madre cattolica. Nessuno dei due ha voluto predominare sull’altro. Io sono credente, leggo il Corano e la Bibbia. Non ho ancora deciso se Dio abita in una chiesa, una moschea o in una sinagoga. Aspetto che nella mia vita arrivi il momento di capirlo”.
Lei è uno tra i migliori rapper italiani, ha trovato nell’arte e nella creatività la chiave per vincere rabbia e ribellione.
“La mia storia personale è difficile. Mio padre è stato in carcere un bel po’ quando ero piccolo. Mia madre era sempre fuori per lavorare e mandare avanti la famiglia. La rabbia si è trasformata in musica a 16 anni. Ho dato una svolta alla mia vita”.
Ci parli del progetto nazionale nelle scuole promosso da Unar (Unione nazionale antidiscriminazioni razziali): “Il razzismo è una brutta storia”.
“Ne sono direttore artistico. A scuola spesso sono gli adulti che creano barriere. Più i ragazzi sono piccoli e meno fanno differenze. Tutto è nato otto anni fa. A Roma collaboravo con delle associazioni di quartiere in progetti per ragazzi dai 10 ai 16 anni segnalati da assistenti sociali. Con la scrittura riuscivano a raccontare quello che avevano dentro e che non riuscivano a dire. Mi si è aperto un mondo. Sono diventato un docente per aiutare i ragazzi in cui mi rispecchiavo”.
Scritto dai giovani, il rap è un libro in cui i nodi si sciolgono e diventano ritmo. È davvero così?
“Racconto delle storie e le metto in rima con la musica. I brani La mia pelle e Straniero nella mia nazione potrebbero essere riscritte come un racconto lungo tre minuti. Il rap è un’esca per i ragazzi che spesso associano la lettura allo studio, a qualcosa di imposto. In me vedono l’amico. Il progetto serve per parlare di ogni tipo di discriminazione. Lavoriamo sulle parole, quelle più giuste da usare, perché ognuna ha un peso e può ferire. Spesso non raccontano per paura del giudizio altrui. Non è vero che non hanno voglia di fare nulla. Se guardiamo al passato i giovani sono sempre stati visti così dagli adulti. Quello che occorre è la pazienza di ascoltare”.
La svolta della sua vita arriva al carcere di Rebibbia nel 2005 durante un concerto…
“Non avevo mai parlato dell’esperienza di mio padre, mi fu imposto da mia madre per tutelarmi. Pensavo di aver rimosso. Ma entrando lì ho avuto uno shock, si sono aperte delle ferite e oggi dico ai ragazzi di parlarne, di non fare questo errore. La sera ho scritto Alle 5 del mattino”.
Poi è arrivato Guerrieri, il pezzo che lo ha fatto conoscere al grande pubblico e che racconta la storia di eroi quotidiani.
“Ho partecipato a un programma su La7, ‘Guerrieri – Storie di chi non si arrende’. Ogni puntata raccontava una storia diversa. La mia era sulle seconde generazioni. Sono guerrieri le persone che partono dal basso credendo in qualcosa. Non importa il successo economico, ma solo ciò che stimola ogni giorno nella vita e ti manda avanti”.
Ius music, il nuovo lavoro, richiama l’attenzione sullo ius soli.
“Oggi sono tra i maggiori esponenti in Italia ad aver discusso di questa tematica in musica. Ora vige lo ius sanguinisriguardo l’assegnazione della cittadinanza. Ho promosso una petizione e faccio parte dell’associazione ‘Questa è Roma’ formata da ragazzi che, come me, si sentono italiani. Secondo me la rivoluzione è proprio questa: finché anche noi ci presentiamo come figli di immigrati e ragazzi di seconda generazione avremo questa etichetta”.