Grandi educatori

Per tutta la vita, la cultura significò «per mio padre una forma di emancipazione». Così Giulia Manzi ricorda suo padre Alberto (1924 – 1997) diventato Maestro d’Italia negli anni Sessanta, grazie alla trasmissione Rai «Non è mai troppo tardi» che aveva lo scopo di insegnare a leggere e a scrivere a una larga fascia della popolazione italiana ancora analfabeta. Giulia, classe 1988, nel suo libro «Il tempo non basta mai. Alberto Manzi, una vita tante vite» (Add Editore) rievoca la figura di pedagogo di «una testa calda» soprattutto «quando si trovava di fronte a prepotenze e prevaricazioni da parte dei potenti verso i più deboli». Il volume è uscito quasi in concomitanza con la miniserie Rai «Non è mai troppo tardi» (ieri sera su Rai 1 la prima parte ha ottenuto 5.932.000 telespettatori, stasera la seconda parte), protagonista Claudio Santamaria che veste i panni di «una persona curiosa, cui piaceva esplorare con mano ogni aspetto della vita».

«Essere significa essere liberi». Giulia, per quale motivo ha scelto come esergo del volume la frase di Fernando Pessoa tratta da «Il libro dell’inquietudine»?
«Parto col dire che Pessoa è uno dei miei autori preferiti. Nelle sue parole e nelle sue poesie riesco sempre a ritrovarmi. In quella frase, nello specifico, ho rivisto papà: una persona che aveva rinunciato completamente all’“avere”, che aveva deciso pienamente di “essere”… quale esergo migliore di “Essere significa essere liberi”? In un certo senso, riassume parte dell’anima di mio padre».

Il suo libro inizia dal racconto della storia meno conosciuta di suo padre «uomo mite e pacato» cioè quando fu maestro tra indios e campesinos analfabeti del Sud America. Ce ne vuole parlare?
«Nel libro non descrivo proprio la sua avventura di insegnante in Sudamerica, bensì il suo ultimo viaggio in quelle terre, che per lui erano come una seconda patria, nel 1984. Mio padre andò la prima volta in Sudamerica per conto dell’Università di Ginevra, a studiare le formiche. Una volta lì si rese conto che v’erano cose più importanti degli insetti: c’era la dignità umana che veniva calpestata, persone condannate a servirne altre, succubi delle ingiustizie. Decise di fare il proprio e con Don Giulio, altri sacerdoti e volontari andava in giro per il Sudamerica a insegnare a leggere e scrivere ai contadini. La cultura era – ed è – forma di emancipazione, specie in quelle zone in cui, se non sai leggere e scrivere, non puoi iscriverti a un sindacato. Ovviamente, questa loro impresa non piaceva ai più: alcuni sacerdoti vennero uccisi con l’accusa di essere “preti rossi” (sacerdoti comunisti) e le loro morti furono fatte passare per incidenti; altri membri del loro gruppo furono imprigionati e giustiziati… Non era una situazione facile, perché ovunque andassi rischiavi la vita, ma era la cosa giusta da fare e mio padre ci si gettò a braccia aperte».

Di cosa si occupa il Centro Alberto Manzi?
«Il Centro Alberto Manzi, a Bologna, si occupa di preservare e di rendere fruibili al pubblico i materiali inediti e non, di mio padre: libri, appunti, fogliettini sparsi, manoscritti…Inoltre, il Centro organizza iniziative quali mostre, premi, lezioni, ecc… atte a tener vivo il ricordo della sua memoria, o che utilizzino i metodi pedagogici di mio padre».

È vero che il maestro insegnò a leggere e a scrivere a un milione e mezzo di italiani durante gli anni di Non è mai troppo tardi trasmissione televisiva di Rai 1 (1960 – 1968) e tenne sempre a modello la frase di Kant: «Il maestro non può insegnare pensieri, ma deve insegnare a pensare»?
«Sì: tramite quella trasmissione papà divenne il “maestro d’Italia”. Se si pensa che neanche era interessato a partecipare ai provini, la faccenda risulta divertente. La frase da voi citata era senza dubbio uno dei fulcri del suo essere insegnante, ma non è l’unica: papà aveva studiato, era preparato e c’erano diversi pedagogisti su cui si basava e sperimentava direttamente in classe».

Dalle pagine del suo libro emerge la figura di Alberto Manzi come uomo fuori dal comune che visse tante vite: pedagogo, insegnante, personaggio televisivo, scrittore con oltre trenta tra romanzi, racconti, fiabe, traduzioni e titoli di divulgazione scientifica tradotti in tutte le lingue, citiamo Orzowei, Sindaco di Pitigliano in provincia di Grosseto… Non sembra anche a lei?
«Posso assicurarvi che, mentre lo scrivevo, mi mettevo le mani nei capelli per tenere il filo di tutto. Confesso che c’è stato un momento in cui avrei voluto intitolare il libro: “Una vita non basta”, ma visto che papà, nella sua, ha fatto così tante cose da risultare incredibili, non sarebbe stato appropriato. Infatti, il sottotitolo (suggerito da mamma) è proprio: “Una vita tante vite”. Sono felice che ci sia riuscito a esplorare con mano ogni aspetto della vita, anche se ho l’impressione che, per lui, sia stato anche troppo poco, considerando che fino all’ultimo la sua curiosità e il suo amore per la vita hanno resistito».

È ancora attuale e presente l’insegnamento di Suo padre nel nostro sistema scolastico?
«Non sono una pedagogista, né ho studiato didattica, quindi posso parlare solo per la mia esperienza personale di studentessa: se, per attuale e presente, intendiamo che andrebbe applicato, sì, lo è ancora. Se intendiamo che nel sistema scolastico è quello che avviene, no. Non penso che il suo insegnamento sia stato applicato mai a livello generale, ma solo in piccole eccezioni e casi singoli. Purtroppo nel nostro sistema scolastico si punta sempre più alle nozioni e sempre meno alla capacità di sviluppare un pensiero critico che ci permetta di elaborare il nostro concetto, di arrivare alla nozione, senza che venga impartita come assioma dall’insegnante. Noi ragazzi non siamo vasi da riempire, ma persone a cui bisogna insegnare a ragionare con la propria testa, ad amare la conoscenza in ogni sua forma. Mi dispiace, ma dal mio punto di vista di studente, sono davvero pochi gli insegnanti che fanno un lavoro di “maieutica”, di “educazione al pensiero” sugli alunni. Per fortuna, quei pochi ci sono».

Nella prima parte della fiction Non è mai troppo tardi andata in onda su Rai 1 ieri sera alle 21,15 che si concluderà questa sera il protagonista Claudio Santamaria ha dichiarato che Alberto Manzi «negli anni Sessanta era cinquant’anni avanti rispetto alla scuola italiana. Ciò che è straordinario è che oggi i suoi metodi rimangono ancora cinquant’anni avanti». È d’accordo?
«Sì, mi ritengo concorde con quest’affermazione. Nonostante si stiano facendo dei piccoli passi avanti, se ne fanno talmente tanti indietro che l’avanzamento risulta quasi invisibile. Spero un giorno di poter vedere il superamento dei metodi didattici di mio padre, perché significherebbe che si è arrivati a un ulteriore livello di miglioramento».

La prima parte della miniserie televisiva ha raccontato quel periodo nel quale Suo padre divenne maestro presso il carcere minorile romano Aristide Gabelli conquistando, armato di matite e carta da fornaio, la fiducia di ragazzi difficili. Che emozione ha provato vedendo quelle immagini?
«Sulla fiction sono in silenzio stampa. Posso dirvi solo che l’ho vista e che mi è piaciuta l’interpretazione di Santamaria».

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