La fede scelta

La fede è sempre di più una scelta. La domanda religiosa è sempre più “selettiva”. Il sociologo Franco Garelli analizza i dati del IX Rapporto sulla secolarizzazione e parla di un “cambio di passo”. E ancora: “Nessun automatismo”, la fede è sempre più questione di scelta e non di etichette”, ma la Chiesa è ancora una presenza rilevante nel nostro Paese, e il calo delle vocazioni può essere affrontato puntando sulla “qualità” della testimonianza.

In Italia tramontano le vocazioni, diminuiscono i battesimi, i matrimoni religiosi sono sempre meno diffusi e il numero delle scuole cattoliche va riducendosi. Sono i risultati del IX Rapporto sulla secolarizzazione in Italia, curato dalla Fondazione Critica Liberale e dalla Cgil-Nuovi Diritti. Franco Garelli, ordinario di sociologia all’Università di Torino, commentando i dati con il Sir parla di un “cambio di passo” che può avere risvolti anche sorprendentemente positivi: “Nessun automatismo”, la fede è sempre più questione “di scelta e non di etichette”, ma la Chiesa è ancora una presenza rilevante nel nostro Paese, e il calo delle vocazioni può essere affrontato puntando sulla “qualità” della testimonianza, in una società in cui la domanda religiosa è molto più “selettiva” rispetto al passato. Senza contare l’“effetto Francesco”, che ancora nessuna statistica ha rilevato…

Professor Garelli, come giudica dal punto di vista scientifico il Rapporto?
«I dati si riferiscono agli ultimi vent’anni, un arco di tempo abbastanza lungo per i tempi che stiamo vivendo. Gli anni dal 1991 ad oggi sono stati anni di grandi trasformazioni sociali, alcune prevedibili e altre meno. Siamo passati da una società in cui le figure religiose erano molte – e molte di più nei decenni passati – a una società in cui le figure e le strutture religiose sono ancora rilevanti, ma meno presenti. Contemporaneamente, le associazioni ecclesiali o i gruppi di base sono presenti in maniera proporzionalmente più intensa, più forte, più ramificata rispetto a 20 o 30 anni fa, dove la presenza cattolica era ‘di punta’. In una parola, viviamo in una società più pluralistica, in cui si è ormai passati da un cattolicesimo diffuso e dato per scontato per quote ampie di popolazione a un tipo di appartenenza che si mantiene numericamente abbastanza elevata, ma con una quota di popolazione che aderisce in modo diverso. Di fronte a questo scenario, la questione religiosa è sempre più una questione di scelta e non di etichette».

Con quali conseguenze?
«In questi vent’anni si è assistito ad un vero e proprio cambio di passo. La nostra è oggi una società in cui c’è una quota minoritaria di cattolici convinti, che io definisco ‘sub-cultura’ cattolica; poi c’è una quota rilevante di persone che vivono l’appartenenza religiosa ‘a maglie più larghe’ rispetto al passato; infine ci sono coloro che si pongono ai margini del discorso religioso, che si identificano, cioè, a prescindere da esso. In questo scenario, il ruolo della Chiesa è ancora rilevante, ma deve trovare nuove modalità di presenza rispetto al passato».

Uno dei dati salienti del rapporto è il calo delle vocazioni…
«I dati degli ultimi due decenni fanno registrare una certa diminuzione del personale religioso, ma direi che 408 nuove vocazioni all’anno non sono poche: in vent’anni, se si dovesse confermare questa tendenza, sarebbero poco meno di 10mila nuove unità, che di certo non riescono a sostituire le ‘uscite’ per le morti o per l’invecchiamento del clero, ma non sono tuttavia un dato trascurabile. Bisogna uscire da un discorso sempre riferito al passato. Quella di oggi è una Chiesa che restringe un po’ le proprie fila, ma anche la domanda religiosa è molto diversa rispetto a quella di un tempo: è numericamente ridotta, ma molto più selettiva».

La sua proposta è, quindi, di puntare sulla “qualità”?
«Il cattolico impegnato, molto attivo e convinto, che vuole la socializzazione e l’educazione religiosa per i propri figli, che vive con intensità e continuità la propria fede e testimonia la sua identità religiosa nelle scelte di vita, è minoritario, ieri come oggi. Il vero problema è se il clero è capace di una presenza nella società italiana e nelle nostre comunità che sia davvero rigenerante. Ci vuole più specializzazione, più preparazione per vivere in un contesto in cui i ‘vicini’ sono più esigenti e i ‘lontani’ sono attenti solo se il livello della proposta è alto. Siamo passati dall’unificazione religiosa, dalla domanda diffusa, a un contesto in cui la gente vuole scegliere tra diverse possibilità, o decide di non incamminarsi su un cammino di fede perché non lo ritiene necessario più per la vita. In passato, c’era un’unica alternativa: credere o non credere. Era plausibile credere. Oggi è quasi più plausibile non credere».

L’“effetto Francesco” può invertire questa tendenza?
«Al di là degli effetti che questo papato già straordinario sta producendo, il vero problema che i dati del Rapporto ci consegnano è che c’è una tenuta del tessuto cattolico, che però indubbiamente si riscopre minoritario nella società. Per invertire la tendenza, bisogna superare l’idea che la fede sia legata a iniziative eccezionali o estemporanee: occorre stare dentro le parrocchie, nel vissuto quotidiano delle persone, altrimenti il rischio è che la Chiesa al tempo di Internet sia legata ad eventi eccezionali o spettacolari ma non riesca più a parlare il linguaggio della gente, ad intercettarne le domande. Soprattutto quelle dei giovani, che altrimenti rischiano di restare senza proposte».