Liturgia in crisi

Consultando per la prima volta il sito Internet o il blog del savonese Andrea Grillo (rispettivamente, agli indirizzi andreagrillo.altervista.org e http://grilloroma.blogspot.com), si rimane piacevolmente stupiti: la sorpresa è legata soprattutto all’idea che un laico, padre di famiglia, possa dare lezioni di Teologia sacramentale al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma, o all’Istituto di Liturgia pastorale di Padova.

«È successo per caso e per grazia», spiega Grillo, che giovedì scorso ha preso parte ai lavori del convegno Celebrare per credere, al Seminario di Bergamo. «Per caso – egli prosegue – , perché così può avvenire nella esperienza della Chiesa italiana, dove non esiste alcun progetto per promuovere una teologia pensata dai laici. Questo, per due motivi: perché il laico è meno “controllabile” del presbitero o del religioso, ma anche perché un laico costa circa cinque volte di più. D’altro canto, la mia vicenda è stata resa possibile da una mens non italiana, ma elvetica. Io ho avuto la cattedra di Teologia sacramentaria a Sant’Anselmo per iniziativa della Congregazione benedettina svizzera. Questo ha permesso a un laico di “vivere di sola teologia”. Rimango tuttavia convinto che la Chiesa italiana dovrebbe fare un investimento in tale direzione: dovrebbe avere il coraggio di affidare la mediazione della tradizione ecclesiale anche a soggetti con esperienze e linguaggi diversi».

A Bergamo, parlando della riforma della liturgia avviata dal Concilio Vaticano II, lei ha sottolineato che il dibattito su questo tema era già in corso da molto tempo.
«Certo, ed è un punto di grande importanza. La questione liturgica non è stata un “frutto” del Concilio Vaticano II, ma il Concilio è stato il frutto (anche) della questione liturgica. Questa semplice constatazione contraddice immediatamente certi luoghi comuni – imputabili a smemoratezza e talvolta a malafede -, con cui si tende a capovolgere il rapporto tra le cause e gli effetti. La riforma liturgica si è intrapresa, già negli anni Cinquanta, perché si constatava che si era ormai perso di vista il senso profondo del rito cristiano. Qualcuno oggi tende invece a dire il contrario: poiché si è fatta la riforma, si sarebbero persi il senso e il gusto della celebrazione. Questa ideologia tradizionalista è falsa e fuorviante».

Nella sua relazione, però, lei ha riconosciuto che oggi siamo di fronte a una “crisi della liturgia”. Quali sono gli aspetti più gravi di questa crisi?
«Lo sfondo della crisi è dato, appunto, dalla questione liturgica, che è vecchia di due secoli. Il Vaticano II e la riforma che ne è derivata hanno cercato di portare dei rimedi, per due vie: da un lato rinnovando profondamente i riti, dall’altro promuovendo una nuova comprensione degli stessi, che si traduce anche in una diversa forma di partecipazione dei fedeli. La crisi di cui oggi facciamo esperienza è appunto una crisi di crescita, per certi versi inevitabile: nasce dalla perdita di certezze tradizionali, e dalla fatica con cui le nuove evidenze si diffondono all’interno del popolo di Dio. In passato, spesso, mentre il prete “diceva messa” il laico si dedicava alle proprie devozioni. Questo modello è venuto meno – è caduto in disuso, cioè, un modo profondamente distorto di assistere alla messa. Al suo posto, sta nascendo un diverso, più autentico paradigma di partecipazione. Esso richiede che tutti, sia pure a diverso titolo, prendano parte a un’unica azione rituale: non si può più, durante la messa, recitare il Rosario o accedere al confessionale. Certo, questo modello è nuovo e ha bisogno di maturare, sia tra i membri del clero sia tra i laici. Bisogna avere pazienza, ma – come ben dice papa Francesco – la tendenza è irreversibile. Indietro non si torna».

Sul fronte “tradizionalista”, come lei diceva, si imputa il progressivo svuotamento della chiese – o perlomeno, i problemi che oggi gravano sulle comunità cristiane – alle riforme avviate dal Concilio. Senza per forza dover dare ragione a coloro che denunciano una presunta scomparsa del “sacro” dalla liturgia cattolica, non è però vero che talvolta le celebrazioni nelle chiese sono appiattite sulla dimensione orizzontale? Pensiamo a certi canti zuccherosi, o a certe omelie domenicali in cui ci si parla addosso, per poi concludere esortando i fedeli a essere “un po’ più buoni” nella settimana entrante…
«Mi pare che nella sua domanda si intreccino due discorsi che andrebbero tenuti accuratamente distinti e distanti. Da un lato, l’interpretazione tradizionalista non è disposta a mutare il paradigma con cui interpreta il rito e la partecipazione ad esso. Ovviamente, se si resta entro un modello clericale di comprensione del rito e della partecipazione, si può concludere che la riforma liturgica abbia portato la Chiesa alla rovina. Io, invece, sono del tutto convinto che, se non avessimo fatto la riforma liturgica, oggi le chiese sarebbero molto più vuote, i preti molti di meno e la Chiesa, all’interno della società umana, sarebbe relegata in una posizione assolutamente marginale. I tradizionalisti applicano il vecchio sofisma del post hoc, ergo propter hoc …»

«Dopo di questo, quindi a causa di questo»: ritengono che tutto ciò che è accaduto dopo il Concilio sia stato prodotto dal Concilio stesso?
«Appunto. Ragionando così, però, si parla a vuoto, rafforzando i propri pregiudizi iniziali. Altra questione è se la riforma liturgica non abbia avuto anche applicazioni banali o superficiali. Questo mi pare evidente, e tale stato di cose va superato decisamente. Peraltro, è anche fisiologico: nel momento in cui la liturgia esce dal regime clericale che la “sequestrava” nelle mani del prete e diventa un“linguaggio condiviso”, è anche costretta a diventare ospitale, interessandosi a tutte le forme espressive, a tutte le esperienze. Se la liturgia è gestita soltanto dal prete, il problema centrale è la formazione rubricale e spirituale dello stesso presbitero, che i seminari hanno più o meno sempre assicurato».

Invece, se la liturgia coinvolge tutti i battezzati, le cose si complicano?
«Inevitabilmente. Ora a prendere attivamente parte al rito sono iniziati e neofiti, giovani e vecchi, persone normalmente abili e diversamente abili, uomini e donne, “liberi” e “schiavi”, e così via. Io credo che il Concilio Vaticano II abbia richiesto che tutti questi soggetti prendano parte al culto con cui si loda e si rende grazie a Dio, assumendo la loro esperienza di vita e immettendola nel mistero. Da questo punto di vista, il Concilio e la liturgia che ne è derivata hanno molto ampliato e arricchito la dimensione del “sacro”».

Nel corso del convegno promosso dalla Scuola di Teologia del Seminario di Bergamo, si è affrontata anche una questione di ordine “filosofico”, legata a uno dei presupposti della cultura moderna: questa, tendenzialmente, ha ritenuto che il luogo proprio della “verità” fosse la conoscenza per concetti; al rito si è attribuita, al massimo, una funzione edificante o didattica. Che cosa ha da dire, al riguardo, la fede cristiana? 
«Oggigiorno il movimento liturgico è chiamato a impegnarsi nel progetto ambizioso di riscoprire il rito e il simbolo come un linguaggio primario, fondamentale sia per la rivelazione divina, sia per la fede umana. Detto diversamente: la liturgia non è la traduzione esteriore di concetti, ma è piuttosto il presupposto relazionale, espressivo ed esperienziale che rende possibile una dottrina e una disciplina. Questa è una grande novità, e mette alla prova la tradizione della Chiesa, che storicamente ha preferito un approccio più semplice e più rassicurante alla liturgia, intesa come “sacra cerimonia”. Uscire da questo schema non è facile. Lo vediamo dalle tracce depositate nel linguaggio comune: non si è soliti descrivere gli aspetti più formali e pesanti della vita politica come “inutili liturgie”? Oggi, siamo alla ricerca di una forma di comprensione della liturgia che si sottragga alla pericolosa alternativa tra l’intellettualismo e un cerimonialismobasato sull’esteriorità. Il fatto liturgico ha a che fare, originariamente, con il rivelarsi di Dio e con l’assenso spirituale e corporeo dell’uomo a tale rivelazione. Su questo punto la Chiesa è chiamata a una non piccola conversione, sul piano teorico e fattuale. Offrire un contributo intelligente e coraggioso in questa direzione è un compito della teologia di oggi e di domani: essa può adempierlo dialogando con le migliori espressioni della cultura contemporanea».