All’Arena per la pace

“In piedi, costruttori di pace!”, cosi il 30 aprile del 1989 don Tonino Bello, vescovo di Molfetta e Presidente italiano di Pax Christi, esortava il variegato popolo della pace che aveva affollato l’Arena di Verona.

ALL’ARENA DI  VERONA

Un appuntamento – quello dell’Arena – iniziato il 4 ottobre del 1986 (Educazione alla mondialità e alla pace, disarmo, obiezione di coscienza, stili di vita fu il tema di quell’anno) e proseguito nel 1987, 1989, 1991 (due incontri, era scoppiata la prima guerra del Golfo), 1993, 2003. Seduti sui monumentali gradini dell’anfiteatro, dove solitamente risuonano le note delle grandi opere liriche, nel corso degli anni abbiamo ascoltato la voce profetica di testimoni come il Premio Nobel per la Pace Rigoberta Menchù, padre Turoldo, padre Balducci e molti altri. Le Arene sono state un’apertura alla mondialità, una lettura del mondo con gli occhi dei poveri e degli oppressi. Una forte denuncia di un sistema economico che strangola i poveri e una denuncia della corsa agli armamenti con proposte di obiezione, di lotta nei confronti di questo modello.

Il 25 aprile di quest’anno si riparte con una nuova Arena di pace: «Una giornata di resistenza e liberazione. La resistenza oggi si chiama nonviolenza. La liberazione oggi si chiama disarmo». A firmare l’appello di padre Alex Zanotelli e don Luigi Ciotti sono stati in tantissimi: riviste missionarie (“Popoli”, dei Gesuiti, “Nigrizia”, dei Comboniani, “Missione Oggi” dei Saveriani), esponenti significativi della società civile, di gruppi, movimenti e associazioni che da anni si battono per la pace e la giustizia. Credenti e non credenti. Un appello forte e accorato: «L’Italia ripudia la guerra, ma noi continuiamo ad armarci. Crescono le spese militari, si costruiscono nuovi strumenti bellici. Il nostro Paese, in piena crisi economica e sociale, cade a picco in tutti gli indicatori europei e internazionali di benessere e di civiltà, ma continua ad essere tra le prime 10 potenze militari del pianeta, nella corsa agli armamenti più dispendiosa della storia. Ne sono un esempio i nuovi 90 cacciabombardieri F35, il cui costo d’acquisto si attesta sui 14 miliardi di euro, mentre l’intero progetto Joint Strike Fighter supererà i 50 miliardi di euro; il nostro Paese, inoltre, “ospita” 70 bombe atomiche statunitensi B-61 (20 nella base di Ghedi a Brescia e 50 nella base di Aviano a Pordenone) che si stanno ammodernando, al costo di 10 miliardi di dollari, in testate nucleari adatte al trasporto sugli F-35. Gli armamenti sono distruttivi quando vengono utilizzati e anche quando sono prodotti, venduti, comprati e accumulati, perché sottraggono enormi risorse al futuro dell’umanità, alla realizzazione dei diritti sociali e civili, garanzia di vera sicurezza per tutti. Gli armamenti non sono una difesa da ciò che mette a rischio le basi della nostra sopravvivenza e non saranno mai una garanzia per i diritti essenziali della nostra vita – il diritto al lavoro, alla casa e all’istruzione, le protezioni sociali e sanitarie, l’ambiente, l’aria, l’acqua, la legalità e la partecipazione, la convivenza civile e la pace; e inoltre generano fame, impoverimento, miseria, insicurezza perché sempre alla ricerca di nuovi teatri e pretesti di guerra; impediscono la realizzazione di forme civili e nonviolente di prevenzione e gestione dei conflitti che salverebbero vite umane e risorse economiche. Per immaginare e costruire già oggi un futuro migliore è indispensabile, urgente, una politica di disarmo, partendo da uno stile di vita disarmante».

In questi mesi si è molto lavorato per riempire l’Arena di persone ma, soprattutto, per arrivare con idee, progetti, contenuti che, oltre gli slogans, facciano camminare sulla strada della nonviolenza, del disarmo, della pace. «Un grande raduno – si legge ancora nell’appello – di tutte le persone, le associazioni, i movimenti della pace, della solidarietà, del volontariato, dell’impegno civile, che faccia appello non solo ai politici ma innanzitutto a noi stessi, chiedendo a chi vi parteciperà di assumersi la responsabilità di essere parte del cambiamento che vogliamo vedere nel mondo». «Se non abbiamo la forza di dire che le armi non solo non si devono vendere ma neppure costruire – diceva don Tonino all’Arena nel 1989 – …che la nonviolenza attiva è criterio di prassi cristiana, che certe forme di obiezione sono segno di un amore più grande per la città terrena… se non abbiamo la forza di dire tutto questo, rimarremo lucignoli fumiganti invece che essere ceri pasquali».

LA PACE, TRA REALISMO E PROFEZIA

Sono tanti i cristiani, anche di Bergamo, che affolleranno l’Arena il 25 aprile. Alcuni oratori e parrocchie della nostra Diocesi si sono mossi e hanno organizzato macchine e pullman per il trasporto. Lo sappiamo: la pace è il primo dono di Gesù Risorto (Gv 20) e attorno ad essa i cristiani hanno, nel corso della storia, misurato la loro fedeltà al Vangelo e, insieme, la loro fatica di coniugare, nelle vicende umane, quella buona notizia che non ha altro terreno su cui depositarsi se non la storia stessa. Con due rischi, sempre presenti all’interno della vicenda cristiana. Il primo è quello che potremmo definire una sorta, non troppo velata, di “fondamentalismo” evangelico che, brandendo minacciosamente il vangelo, evita qualunque forma di mediazione con la complessità della situazione umana. Il secondo, speculare al precedente, è quello di chi ritiene necessario fare i conti con la storia, senza perdersi in eccessivi riferimenti, e, alla fine, giustificare, con la fede, qualsiasi tipo di opzione assunta. Sono “corti circuiti” che dimostrano la difficoltà dei credenti a pensare, in modo critico, la forma di presenza dentro il mondo. In realtà, sin dagli inizi dell’avventura cristiana, i credenti nel Dio di Gesù si sono mossi seguendo due linee: quella profetica, segnata dalla denuncia e da una più radicale aderenza al messaggio biblico evangelico (lo shalom che è abbondanza e pienezza per tutti ma anche il volto e la storia di Gesù di Nazareth) e quella sapienziale più attenta al discernimento e alla ricerca del bene possibile qui e adesso. Le due linee non si escludono anzi si integrano dialetticamente ma nella storia della Chiesa spesso una ha prevalso sull’altra. Dando a volte l’impressione di aver trasformato la mediazione in compromesso.

A Verona si ascolteranno le voci di quei credenti che, sostenuti anche dalle parole forti espresse da Papa Francesco sin dall’inizio del suo pontificato sul tema della giustizia, sono più preoccupati di rispondere con passione alle domande di pace che dalla terra e dalle sofferenze degli uomini salgono a Dio. Si dovrà chiedere loro di tradurre tutto questo nella complessità del tempo presente evitando ingenue semplificazioni. Non tenerne conto però significa non credere che il Vangelo possa essere lievito nella nostra storia.

 PER NON FINIRE “ADATTATI”

Quando intervistai don Tonino Bello gli chiesi perché noi cristiani spesso non abbiamo consapevolezza del valore “teologico” della pace. Mi rispose cosi: «A dire il vero, dovremmo essere più audaci come Chiesa. Il Signore ci ha messo sulla bocca parole roventi: ma noi spesso le annacquiamo con il nostro buon senso. Ci ha costituiti sentinelle del mattino, annunciatori cioè dei cieli nuovi e delle terre nuove che irrompono, e invece annunciamo cose scontate, che non danno brividi, che non provocano rinnovamento. Spesso ci adattiamo alla corrente… del Golfo». Che non sia cosi anche per noi.