Gli #illibrati

Quanto è folto l’esercito degli #illibrati? Quelli che mai toccano un libro, ma proprio mai, neanche per sbaglio? E quindi mai, ma proprio mai se ne fanno possedere? Se lo chiede @Diaridilibri di questa settimana, la rubrica dello scrittore Claudio Calzana, autore di romanzi come «Il sorriso del conte» ed «Esperia», direttore dei Progetti Editoriali e Culturali di Sesaab e direttore della libreria Buonastampa (via Paleocapa 4/d). E se, cari lettori, vi riconoscete, scriveteci la vostra.

Lo sapete come funziona nel Grande Circo della Comunicazione: un sociologo, piuttosto che una penna ardita, certo brillante, ovvero prezzolata, ti inventa un termine destinato a chiara fama. Chessò, i bamboccioni, gli haters, i riempi-agenda, gli sfasciagandoli… E allora mi son detto: ci provo anch’io: ed ecco a voi gli “illibrati”, termine che sparpaglio in rete, sia pur protetto da opportuno ©.
Gli illibrati sono i tanti, troppi, vergini da libro. Ora, sia chiaro: è quasi impossibile non aver mai avuto contatto con un testo, quanto meno sfiorato, aperto per caso, inciampato. Però sono in molti che non ci fanno conto, lo considerano incidente di percorso, maligneria, inutilia tantum. Insomma, gli illibrati mai che arrivino al rapporto completo con i libri, alla compenetrazione assoluta: roba che accade solo quando il libro non si erge come ostacolo di fronte a te, ma diviene parte di te, ti possiede, o tu con lui, non è mai chiaro il primum movens.
E la scuola, dirà qualcuno? Gli studenti, a veder bene, hanno rapporto con succedanei che del libro hanno la facies, mica il sigillo. A scuola i libri sono per l’appunto manuali, e qui non faccio la battuta perché ridete di più se ci arrivate da soli. E gli universitari, insisterà qualcun’altro? Ecco, appunto. Da quel che vedo e annuso, nelle nostre facoltà del libro spesso si danno a leggere parti e porzioni, mica l’intero. Il rapporto con i libri è ritagliato, interruptus sul più bello, comunque svelto, agito nel pensiero, almanaccato.
In generale, comunque, l’illibrato è colui che dopo i minuti assaggi della scuola, ha mollato l’idea che il libro possa giovargli, e si nutre d’altro, non indago cosa. Gente perduta tra la perduta gente. Poveri cuori, non sanno che si perdono, fan tenerezza per quel minimo abbandono. E qui mi vien da dire che se si trovasse qualcuno che i libri proprio li scansa tutti per principio, che non li fila manco, ecco lì magari si potrebbe pure incontrare un pensiero incontaminato e vivo: l’illibrato vergine davvero, una sorta di Emilio russoiano tutto pratica e natura, uno venuto su selvatico ma non per questo ignorante e sregolato, o peggio.
Certo, io sto dalla parte di chi coi libri commercia spesso, per non dire fornica di gusto. E questo mica è peccato: qui siamo nei pressi del Cantico dei Cantici, dove il desiderio si fa gesto umano e consapevole, bellezza rara. Perché un libro è buono e vero se ti vien voglia di contarlo su agli amici: anzi, se ti va di farlo conoscere a tutti, in una prospettiva assai poco illibrata, devo dire. Insomma, un buon libro lo capisci se fa tam tam, gruppo di lettura, orgia squisita.
Senza tacere, in conclusione, che per ciascuno di noi lettori c’è comunque un libro solo che ci tocca da presso. Il preferito? Forse. Di certo il libro che sorprende a ogni lettura. Il libro cui affidiamo l’orizzonte. Per non dir la cura.

© Claudio Calzana
www.claudiocalzana.it
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L’immagine riprende un particolare di un’opera di Richard Wentworth esposta alla Biennale di Venezia nel 2009

Hai anche tu una storia di libri da raccontare? Scrivici e Claudio Calzana la racconterà per te!

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