«Le carceri non sono una discarica del disagio sociale»

Avviamo con questa intervista a don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri e in passato per oltre vent’anni cappellano del carcere di Bergamo, una serie di interventi e testimonianze di approfondimento sulla situazione dei detenuti nelle carceri e sulla giustizia. Il 20 maggio don Virgilio è tra gli ospiti di un incontro sulla “giustizia riparativa” al Centro Congressi di Bergamo nell’ambito del Festival della Cultura.

«Il Piano Carceri del Ministro della Giustizia Orlando, che prevede soldi ai detenuti e sconti di pena per rimborsare il sovraffollamento, lo vedo come un banco di prova per sviluppare altre azioni di rappacificazione sociale. L’esito positivo dipende da tutti, operatori della giustizia, persone detenute o sottoposte ad altre misure restrittive, servizi sociali dei territori, terzo settore e comunità civili ed ecclesiali». Don Virgilio Balducchi, per oltre vent’anni cappellano del carcere di Bergamo, da due anni a Roma in veste d’ispettore generale dei cappellani delle carceri, dice la sua sul Piano del titolare della Giustizia, progetto che ha scatenato nel nostro Paese un grande dibattito. Anche ieri si sono svolte in diverse parti d’Italia manifestazioni contro il sovraffollamento delle carceri e il presidente della repubblica Giorgio Napolitano è tornato a sollecitare leggi di indulto e amnistia. Don Virgilio, 63 anni, prete dal 1976, si è sempre occupato di disagio sociale, prima con i tossicodipendenti, poi con gli immigrati e infine con i detenuti. Secondo lui la riforma (per ora soltanto promessa) «è un po’ di ossigeno per un malato che arranca e fa fatica a respirare. Come sanno bene le persone che l’hanno proposto, non è la soluzione radicale al sovraffollamento né tanto meno uno svuota carceri». Non dimentichiamo il fine ultimo che per don Balducchi è uno solo: «la pena deve tendere alla rieducazione».

Don Virgilio, dal 2012 è ispettore generale dei cappellani delle carceri. Sovraffollamento, risse, proteste e suicidi: la situazione carceraria in Italia è questo o vi sono delle isole più vivibili?
«In questo periodo si sente spesso parlare di emergenza carcere ma gli operatori che lavorano negli istituti sanno bene che l’emergenza è ormai quotidiana da parecchi anni. Quando penso ai volti delle persone che incontro come detenuti in carcere e alla loro situazione sociale, purtroppo mi appare l’immagine simbolica di una discarica che nemmeno riesce a creare un decente riutilizzo del materiale riciclabile. Questa visione è degradante, se pensiamo che parliamo di uomini e di donne, ma rende l’idea di come abbondantemente scarichiamo in carcere il disagio sociale e pensiamo così di toglierlo dalla nostra visuale per rendere più sicure e pulite le nostre città. Non si tratta quindi di risolvere o rendere meno frequenti i dati di criticità ma di compiere una svolta culturale che cambi il modo di amministrare la giustizia e scegliere finalmente il carcere come l’ultima delle risorse, per intervenire nella prevenzione dei reati e per creare sicurezza sociale. Pensiamo ad esempio che in questi anni i detenuti stranieri sono passati dal 15% circa della popolazione detenuta a oltre il 36%».

Il più delle volte il carcere diventa un luogo nel quale alloggiare i cosiddetti rifiuti della società: tossicodipendenti, extracomunitari, malati mentali, come se la risposta ai loro problemi fosse solo la prigionia. Che cosa ne pensa?
«Minor qualità di vita più rischio di finire nelle patrie galere, mi sembra questo il tracciato di fondo che percorre i fenomeni di illegalità che coinvolgono la maggior parte delle persone detenute, per questo più immigrazione, più tossicodipendenza, più malattia mentale, più desiderio di possedere cose e persone corrispondono a più carcere. Non è una questione di causa ed effetto ma di una sinergia negativa sociale in cui le note del concerto della convivenza suonano da una parte come musiche che indicano la felicità nel maggior benessere personale come il massimo della realizzazione, ma si accompagnano a marce funebri laddove ti trovi in situazione di svantaggio. Il carcere appare allora come il luogo infernale in cui il male si combina con la povertà, come luogo e destino finale della non riuscita sociale. Vite perse dietro a desideri impazziti ma tanto simili agli obiettivi che permeano la nostra società molto legata al fruire la vita e poco a gustarla, come responsabilità nella costruzione del miglior bene comune possibile. In carcere i vissuti quotidiani riflettono lo stesso fenomeno, la solidarietà di base è faticosa, è contro corrente, le diverse culture sono a  rischio di conflittualità. Gli stranieri si sentono defraudati rispetto agli italiani, i quali a loro volta pensano che starebbero meglio senza gli stranieri. La solidarietà di base permane ma è più faticosa, richiede un di più motivazionale. In un contesto di depauperamento generalizzato diventa più difficile anche la promozione di strategie di sopravvivenza e di difesa dei diritti comuni. Per questo, più di ieri, è necessario che la società civile sia presente nelle nostre carceri per renderlo il più trasparente possibile e per costruire percorsi di corresponsabilità civile. Oggi più di ieri la protesta è singola, vedi i numerosi atti di autolesionismo, se produce azioni  comuni è molto gridata ma spesso vissuta da molti come poco utile, perché porta quasi sempre a maggiori svantaggi personali e di gruppo. D’altro canto laddove l’impostazione dell’istituto chiama ad assumere maggiori responsabilità condivise il clima cambia, pensiamo alle carceri dove effettivamente si lavora o si studia, la qualità della vita cambia. Per esperienza personale ho visto le persone detenute frequentanti i corsi scolastici richiedere meno i farmaci per reggere la propria depressione carceraria.»

Il Presidente Napolitano ha rivolto un messaggio alle Camere sulla questione carceraria indicando alcune proposte quali la riduzione della custodia cautelare in carcere e l’aumento strutturale della loro capienza. Basta una riforma del codice penale per alleggerire il ricorso alla detenzione?
«Il Presidente Napolitano ha indicato una linea di intervento che tiene conto della criticità e della condanna che incombe sull’Italia se entro maggio non si ristabilisce il diritto alla qualità della vita nelle carceri. Inoltre ha suggerito anche la necessità di una riforma dell’amministrazione della giustizia. La base dell’amministrazione della nostra giustizia risale ancora al codice Rocco, periodo fascista. Per questo è necessaria la riforma del codice penale che ponga le basi per una giustizia riparativa e abbandoni l’idea che l’illegalità si previene semplicemente dando delle pene limitative della libertà (carcere). Come ci stanno insegnando i nostri Papi il male si vince con il bene. Non si tratta quindi di risolvere o rendere meno frequenti i dati di criticità ma di compiere una svolta culturale che cambi il modo di amministrare la giustizia e scegliere finalmente il carcere come l’ultima delle risorse per intervenire nella prevenzione dei reati e per creare sicurezza sociale. Da subito basterebbe applicare maggiormente le misure di esecuzione della pena sul territorio, già da ora definite nella legge del 1975 e successive modifiche applicative. Nel contempo fermiamo e diciamo basta a leggi che, a ogni problema di illegalità o di nuovi allarmismi sociali, prospettino pena carceraria; scorciatoie rispetto al gravoso ma dignitoso lavoro politico di costruire una società che vive il dettato costituzionale del dovere della solidarietà (Art. 2 della Costituzione Italiana).»

Ci lascia un suo parere sul piano carceri del Ministro della Giustizia Orlando, che per evitare di pagare le multe comminate dalla Corte dei diritti dell’uomo ha prospettato l’idea di dare soldi ai detenuti e sconti di pena per rimborsare il sovraffollamento?
«Il piano carceri del ministro Orlando non prevede solo risarcimenti ma la continuazione di proposte che vedano l’aumento della possibilità di vivere la propria condanna con pene alternative (detenzione domiciliare, lavori socialmente utili, affidamento sociale). I risarcimenti pecuniari o lo sconto di pena spero siano solo una risposta di emergenza, in ogni caso non sono molto rispettosi della dignità delle persone, perché i diritti non sono dei beni di consumo ripagabili con baratti. Qualsiasi proposta che favorisca un modello di esecuzione di pena non fra le mura del carcere trova tutti i cappellani pienamente d’accordo e impegnati a offrire alle comunità cristiane proposte e progetti che facilitino la socializzazione e la riconciliazione. Nel dibattito politico sull’amministrazione della giustizia si ricomincia non solo a riparlarne ma a prendere decisioni politiche che rendono possibile la volontà di accogliere e non solo di segregare le persone che hanno commesso illegalità.  Si tratta di un intervento che spero inizi un percorso di cambiamento nell’amministrazione della giustizia. Funzionerà se ciascuno accetterà la sfida e si adopererà in sinergia con gli altri, non si tratta semplicemente di mettere fuori o di non far entrare in carcere ma di riprogettare, di favorire l’incontro di persone che liberamente scelgono il bene comune come anche il meglio per sé. Credo che per lo Stato sia doveroso proporre ai propri cittadini azioni che vadano in tal senso, per la Chiesa corrisponde meglio al dettato di comunione che ha ricevuto dal suo Signore. Le paure di sicurezza sociale che alcuni paventano dobbiamo coglierle come sfida alla nostra capacità di accompagnamento sul territorio delle persone e diffondere luoghi e percorsi d’integrazione, che già esistono e funzionano con risultati positivi… In generale sembra che almeno per quanto riguarda gli operatori penitenziari, unitamente ai responsabili del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria vi sia una consapevolezza che l’emergenza carceri non sia più tollerabile. L’impegno posto, in questi anni, sulla formazione e qualificazione della polizia penitenziaria rende più favorevole un piano di lavoro che mira alla realizzazione del dettato costituzionale: la pena deve tendere alla rieducazione.»

Che ricordi conserva della sua esperienza più che ventennale come cappellano nel carcere di Bergamo?
«Nella mia esperienza di cappellano nel carcere di Bergamo ho sperimentato che è possibile migliorare, con il contributo di tutti, il modo di vivere la giustizia, partendo non dal punire ma dal progettare cammini di riconciliazione sociale.»

Che cosa può essere fatto in concreto, secondo lei, per aiutare un detenuto che abbia scontato la sua pena a reinserirsi nella società evitando ritorni tra le sbarre?
«Maggior intervento di aiuto sociale e di crescita di coesione territoriale, pene alternative alla detenzione, lavori socialmente utili per riparare all’illegalità commessa e percorsi di mediazione penale sono azioni che renderanno possibile un effettivo reinserimento sociale. I dati del Ministero confermano che con questi strumenti le persone accompagnate rientrano molto meno in carcere e si affrancano dall’illegalità. Bisogna pensare all’amministrazione di una giustizia in divenire che renda possibile la ricostruzione dei legami strappati, che a partire dal rendere giustizia alle vittime proponga a chi ha commesso ingiustizia il dovere di cambiare e di riparare. Ciò comporta l’impegno a rendere possibile la riconciliazione come elemento basilare per amministrare la giustizia, usando strumenti di mediazione prima, durante e dopo la definizione della pena. Molti reati sono commessi in stato di bisogno sociale e quindi, per dare a tutti la stesse possibilità di riparazione, non è sufficiente fare le riforme suddette ma è necessario renderle fruibili anche a chi non ha risorse.»

Don Virgilio, quali sono le domande di sostegno esistenziale e spirituale più ricorrenti che i detenuti rivolgono ai cappellani penitenziari?
«Nella comunità cristiana che vive in carcere le domande di senso sulla propria vita, di comprensione del male fatto, di un Dio misericordioso sono il terreno fertile in cui vivere i semi della presenza salvatrice del fratello Gesù Salvatore. L’espressione della propria religiosità è una libertà riconosciuta alla persona anche in esecuzione della pena. Esercitare un proprio diritto mantiene un senso di appartenenza della propria identità e dignità soprattutto in un luogo dove la libertà ti è negata. Questo può aiutare la persona a esprimere il distacco dall’identificazione del proprio sé con il proprio reato, favorendo il desiderio di progettazione diversa della propria vita. In particolare nel credente cristiano cattolico si connota come un aver fiducia in un Dio che non ti abbandona nelle difficoltà o qualsiasi reato tu abbia fatto ma come continua possibilità di riconciliazione. A ogni persona viene proposto di assumere la responsabilità del male fatto, della riparazione del danno, della disponibilità al perdono, rivolgendo parimenti a tutti i credenti cristiani le stesse indicazioni. Questi valori essenziali della fede nel Dio di Gesù Cristo, rinviano tutti all’esercizio della propria libertà finalizzandola a produrre relazioni sociali positive anche dove si siano prodotte lacerazioni e sofferenze. Nel contempo con i credenti cristiani non cattolici e credenti di altre religioni si promuove un cammino ecumenico di ricerca di giustizia e pace per tutti, basato sull’accoglienza della diversità ma nel rispetto dell’identità di ciascun credo religioso e valoriale.»

“Anche Dio è un carcerato, non rimane fuori dalla cella”. Papa Francesco non dimentica l’emergenza carceri. Uno dei primi gesti di Bergoglio fu quello, durante i riti della settimana pasquale, di lavare i piedi a 12 giovani detenuti di nazionalità e confessioni diverse del carcere minorile di Casal del Marmo. Anche questo è uno dei primi effetti della Nuova Primavera del Pontefice argentino?
«Papa Francesco, con i suoi gesti e le sue parole, ha confermato a tutti che il Dio in cui noi crediamo è un Padre Misericordioso verso tutti. È un Dio che non predica la vendetta ma il perdono e di questo perdono possiamo fidarci, perché il suo figlio prediletto Gesù è morto e ci ha donato la vita per salvarci dal male.»

«Nella prima lettera che scriverete ai vostri cari, direte che il Papa è venuto a visitarvi, si è intrattenuto con voi. E il Papa nella santa Messa, nel quotidiano Rosario avrà un pensiero particolare e un intenso affetto per ognuno di voi, per le vostre persone care, tutte…».  Storica l’opera di misericordia compiuta da Giovanni XXIII, da poco proclamato santo, nel carcere di Rebibbia il giorno di Santo Stefano del 1958. Qual è stata la valenza storica di Giovanni XXIII, semplice pastore di anime bergamasco come Lei?
«Papa Giovanni ha rotto il muro di separazione che simbolicamente separa i buoni dai cattivi, questo è il carcere nel pensiero abituale delle persone che stanno fuori. Parlando al cuore delle persone si è messo in un legame personale che ascolta il desiderio di comunione suo e delle persone rinchiuse in carcere. Ha parlato di affetto per loro e i loro cari, ha fissato i suoi occhi nei loro e nella preghiera quotidiana ha promesso la continuazione della condivisione della propria vita con la loro. Ha ridotto la vicinanza di Dio alle loro speranze. Visitandoli ha espresso di nuovo che per la comunità cristiana non sono invisibili e non desiderabili ma persone da accogliere nelle nostre relazioni e nei nostri affetti. Ha parlato da papà buono che non abbandona al suo destino nessuno. Mi pare che da lui potremmo, in comunione con i suoi successori, lasciarci suggerire che compiere giustizia è la responsabilità condivisa di affrontare il male che accade, senza la scorciatoia del semplice dare una pena, separando i buoni dai cattivi. Mi auguro che il termine stesso pena sia meno usato e che nella Chiesa e nella società riparazione, riconciliazione, responsabilità del male commesso, mediazione, pacificazione sociale culturalmente e operativamente siano le parole chiave vincenti.»