Sul viaggio, il pellegrinaggio e sull’umorismo di Dio

«Pensereste che ai nostri giorni i pellegrinaggi siano scomparsi. Invece sono decisamente in aumento. Essi sembrano soddisfare un bisogno dell’anima. Forse le persone trovano la vita religiosa troppo monotona e vogliono qualcosa di più forte, più solenne, più emozionale. Probabilmente la forma assunta attualmente dalla religione non risponde alle necessità della gente». A parlare così è padre Horacio Brito, rettore del santuario di Lourdes, che fotografa un dato incontrovertibile: l’aumento consistente di coloro che frequentano quella che un pensatore ha definito «la strada fra la terra e il cielo».

UN FENOMENO UNIVERSALE

Basta vedere il Camino di Santiago. Negli ultimi anni sono più di duecentomila le “Compostele”, documenti che certificano di aver fatto almeno cento chilometri a piedi, in bicicletta o cavallo, sull’antica strada verso la tomba dell’apostolo Giacomo. Erano solamente duemila nel 1983. Come ha scritto Elizondo, «I pellegrinaggi sono una realtà in crescita non solo per i cristiani, ma per l’umanità. Del tutto lontani dallo scomparire dal nostro mondo moderno, essi aumentano. Moltissime persone si recano nei luoghi tradizionali come la Terra Santa, Compostela o Tepeyac e cresce il numero dei pellegrini ai santuari recenti come Lourdes, Taizè, Fatima e Mediugorje. La Riforma protestante e l’illuminismo li considerarono puerili; mentre il cattolicesimo cerebrale del dopo Vaticano II ha cercato di ridurne l’importanza; eppure gente proveniente da tutti i percorsi di vita e da tutte le religioni va in pellegrinaggio in numero crescente». Certo è che il pellegrinaggio, da sempre presente nel tempo e nello spazio, è un fenomeno universale. Non a caso tutte le grandi religioni hanno visto nel pellegrinaggio un «cammino del Cielo» rappresentato sulla terra da uno o più luoghi significativi: il fiume Gange a Benares per l’induismo, il Tempio d’Oro ad Amritsar per il sikhismo, le «case» di Buddha in India per il buddismo, la Mecca per l’islamismo, Gerusalemme per l’ebraismo.

L’UOMO È “VIAGGIATORE”

Perché viaggiare? È voglia di uscire dal nostro piccolo mondo? È voglia di nuovi incontri? È curiosità? È desiderio di purificazione, di cammino insieme? Tutto questo forse e anche altro. Ma il perché, alla fine, si trova nell’uomo stesso: è l’uomo, nel suo profondo che è «viaggiatore». Attraverso vicende, incontri, storie, noi non facciamo altro che cercare. Siamo radicalmente pellegrini, e cioè, come dice la parola stessa, siamo quelli che vanno «per agros», per campi. Non è stato così per l’uomo, fin dal suo apparire? Non è stato nomade per migliaia di anni? E la Bibbia stessa non ci ha reso amici di uomini nomadi, che con le loro carovane attraverso campi e deserti, erano in cerca di una terra dove stare? La Scrittura ci ha formato a questo stile del passaggio, dell’attraversamento: l’esodo, l’esilio, il ritorno, la Pasqua del Signore, i cristiani nel mondo ma non del mondo.

Il viaggiatore è senza terra: la sua patria è dappertutto e da nessuna parte. Sì, è proprio così: la vita è un continuo stare e andare, star chiusi e incontrare, fermarsi a cercare. Sappiamo che il desiderio che l’uomo ha dentro non si ferma mai, perché è l’infinito che egli cerca. Come scrive Dostoevskij nei “Demoni”, «La grande strada è qualcosa che sembra non aver fine. Assomiglia a un sogno, è la nostalgia dell’infinito».

Secondo una lettura quasi universale, la metafora del viaggio ridefinisce l’esistenza umana come insoddisfazione e inquietudine, abitata da una forza o un demone che la svincola dal limite del “punto di partenza” e, oltrepassandolo, la spinge in avanti, verso una nuova “meta”, un “oltre”, un “di più”, dove trovano abitazione il sogno e l’utopia. Poco prima di morire, il cardinal Lienart disse: «Leggendo la Bibbia ho sempre notato che Dio attende gli uomini sulle strade della loro vita. E gli uomini, consciamente o inconsciamente cercano Dio. Lo cercano e lo trovano. E più lo trovano, più lo cercano, volendo approfondire la loro scoperta, come gli alpinisti che vogliono salire sempre più in alto alla scoperta di un nuovo paesaggio».

UN’AVVENTURA DELLO SPIRITO

I tratti che definiscono il viaggio, sono soprattutto tre. Il primo è quello dell’origine o punto di partenza. Ogni viaggio presuppone sempre una partenza. Si parte sempre da un luogo dove si era già sostato, poco importa se a lungo o per breve tempo. Viaggiare è lasciarsi alle spalle un già noto, per metterci in cammino verso un oltre.

Il secondo tratto è il fine o punto di arrivo. Ogni viaggio presuppone una meta, un “dove” verso il quale ci si muove e che è la ragione stessa del viaggio.

Il terzo tratto infine è la distanza o spazio intermedio che separa il punto di arrivo dal punto di partenza. Concretamente parlando, il viaggio è proprio questo spazio che si distende tra l’uno e l’altro e che il movimento si illude di annullare progressivamente.

In questo spazio – del provvisorio, e dell’imprevedibile, cioè dell’ignoto – si cela l’avventura, nel duplice senso ambivalente di affascinante, per il nuovo che riserva, ma anche di temibile o pauroso, per le minacce che nasconde. Se avventura infatti (che etimologicamente vuol dire “ciò che sta per venire o arrivare”) è ciò che accade al soggetto umano al di fuori dell’arco progettuale, sorprendendolo, il viaggio è l’avventura per eccellenza perchè in esso ogni tratto dell’andare è evento e accadimento, promessa di vita ma anche minaccia di morte, come nel caso del “folle volo” dantesco (Inferno, canto 26). In fondo, il pellegrinaggio tenta di rispondere ad un profondo bisogno dell’uomo di superare i limiti dell’esperienza ordinaria. I luoghi di pellegrinaggio «sembrano avere la forza di un magnete geografico, biologico-spirituale che attira i pellegrini nella sfera del suo mistero che vivifica» (Elizondo).

Tutto questo avviene anche oggi: avviene soprattutto oggi. Paradossalmente, più l’umanità si muove velocemente e più ha bisogno di avere un fondamento.

L’UMORISMO DI DIO

Fa una certa impressione scoprire che molti di questi “cammini dello spirito” si svolgano ai margini della vita “ufficiale” di Chiese e mondi religiosi. Spesso addirittura assumendo rituali e simboli “tradizionali” normalmente guardati con sospetto. Qualcuno attribuisce tutto questo al senso di umorismo di Dio che impedisce all’autorità legittima – ecclesiastica o accademica – di prendersi così sul serio da confondere se stessa con Dio. Come era scritto alcuni fa sull’editoriale della rivista Concilium «Questi luoghi non sono contro la religione ufficiale e la sua legittima autorità. Addirittura, di solito, vi apportano nuova vita. Ma sono semplicemente il modo in cui Dio mantiene umile l’autorità dimostrando, attraverso la mediazione dei poveri e degli umili, che la tenerezza di Dio non conosce limiti e che egli continua a non tenere conto di tutti i criteri e le valutazioni umane nello scegliere i suoi messaggeri speciali per l’umanità. Così essi sono testimoni dei limiti di ogni religione o teologia ufficiali, che cerchino di circoscrivere e imprigionare l’infinità misteriosa di Dio, che continua ad essere manifesta tra noi attraverso i poveri, i bisognosi, gli umili e chi non ha autorità nella società».