L’arte contemporanea e il sacro. E il “piccolo miracolo” della chiesa dell’ospedale

Prosegue il dibattito sulla nuova chiesa dell’ospedale di Bergamo. Ospitiamo un intervento di ampio respiro di don Giuliano Zanchi, segretario della Fondazione Bernareggi, pubblicato nei giorni scorsi sull’Osservatore Romano.

Le glorie dell’«arte sacra», quelle in cui la cultura credente ha imparato a identificare l’idealizzazione dell’incontro fra la vita cristiana e le potenzialità delle arti, sono da due secoli buoni francamente estinte. Almeno in quella forma in cui si sono storicamente date. A spegnerne la forza di irradiazione è il progressivo distacco della grande produzione artistica d’autore dai temi della dogmatica cristiana. I Manet, i Monet, i Gauguin, i Corot, i Courbet, e poi i Picasso, i Braque e i Mirò, per quanto protagonisti di sporadiche incursioni nel soggetto religioso, non avrebbero più servito più la didascalia della fede alla stessa maniera dei Caravaggio, dei Reni, dei Raffaello, dei Carracci e dei Tiepolo, pittori esegeti, pur con tutte le distinzioni possibili, le cui capacità tecniche onoravano l’esercizio spirituale del docere del movere e del delectare. La cultura artistica che dal primo Ottocento avrebbe trasferito definitivamente il suo quartier generale da Roma a Parigi mostrava di andare a braccetto con quelle istanze di fondo di cui si stava nutrendo la costruzione civile dell’Europa moderna, proprio mentre la cultura credente, quella cattolica in specie, percepiva questo grande laboratorio moderno come un processo arbitrario e ostile, dal quale si sente sempre di più estranea e aliena. Alla luce della nuova cultura europea del resto, la vita cristiana avrebbe mostrato di trascinare nell’inerzia forme estetiche e scelte iconografiche di puro mantenimento dogmatico, affidate al precario valore di legioni di mediocri artisti, di modesto talento ancorché di solida obbedienza. Da quelle lontane crepe, consumate tutto sommato nel giro di pochi decenni, l’antica alleanza fra la vita cristiana e il potere dell’arte, che a lungo era stato una simbiosi, talvolta una cordiale amicizia, sarebbe diventata alla fine un distacco tra amanti feriti, di quelli che si lasciano male, e che si di traverso al suono di reciproche taglienti recriminazioni.

Dopo tutto questo, sembrano oggi ritrovate le buone ragioni di un vincolo in via di ricostruzione. La lezione conciliare, per quanto repressa da decenni di ermeneutiche a ribasso, ha dotato la cultura cristiana di uno sguardo nuovo, restituendole l’umiltà di imparare dalle cose di mondo. Per la verità alquanto unilaterale, per ora. La famosa lettera del 1964 che Paolo VI scrive agli artisti, epistola di pacificazione che ogni papa ormai si sente in dovere di rinnovare, ha il tono di una supplica rivolta a un mondo ormai adulto e autonomo, emancipato e indipendente, realizzato e vincente, dal quale farsi perdonare secoli di trascuratezza e abbandono, di incomprensione e disdegno, persino di disprezzo e di condanna. Questo intenso messaggio di pace, lanciato con la foga e la trepidazione di chi nutre profondi sensi di colpa, dà l’impressione di arrivare ai piedi del «mondo dell’arte» raccogliendo per lo più le blande attenzioni di una cultura che ormai si sente superiore. Nel frattempo difatti, benché disposti con alterni sentimenti a ritrovarsi dopo tanto tempo, i due vecchi amanti sono anche molto cambiati. Intanto l’arte ha sfondato tutte le porte che si potevano sfondare e ha prodotto quella cultura estetica che comunemente si usa chiamare «arte contemporanea», che pur generando tutte le sue discussioni e tutte le sue polemiche, si è imposta come l’estetica prevalente della civiltà che rappresenta. Il cattolicesimo per parte sua vive nel continuo affanno del rincorrere un mondo che persiste nel sorpassarla, mettendola nella pericolosa tentazione del rancore, del risentimento, dell’animosità, quando non della regressione integralistica. Il risultato di questi primi appuntamenti sembra aver fruttato solo uno scambio di sguardi imbarazzati.

Le strade che l’arte contemporanea» ha intrapreso in questi ultimi decenni sembrano quelle di una cultura che per trovare sé stessa sceglie di recidere ogni vincolo reale con il grande umanesimo della tradizione moderna, per immaginarsi espressione e veicolo di un postumanesimo che fa in pezzi l’integrità e lo splendore di quell’ideale dell’umano di cui il cristianesimo si sente genitore e artefice, ispiratore e custode. Questa disincantata spinta oltreoministica mostra di procedere in osmosi ai grandi processi del capitalismo avanzano, di esserne in qualche maniera un epifenomeno, tanto quanto un tempo l’«arte sacra» lo era della fede di chiesa. Le cose naturalmente sono assai più complesse, ma intanto l’elitismo che circonda i rituali dell’arte sorvola semplicemente la distanza scavata col grande pubblico, mentre alimenta le colte ironie di grandi intellettuali come Marc Fumaroli che, mentre canta con struggente competenza la bellezza e la profondità umana dell’«arte sacra», deride non senza ragioni il vanaglorioso nanismo di quelli che chiama con evidente dispregio i «plasticatori»; e mentre Jean Clair, con più rudezza e con meno parole, chiama tutto questo l’«inverno della cultura»; e dopo che Jean Baudrillard ha intentato il suo processo filosofico all’arte. La radicalità del loro giudizio, che liquida fra le risate anche chi come Catherine Grenier ha provato a chiedersi se «l’arte contemporanea è cristiana», mostra di leggere i fenomeni sotto la pressione di una potente nostalgia, di selezionare strumentalmente gli imputati all’interno di un panorama troppo vasto per certe semplificazioni, mette il dito sulle piaghe del peggio per distogliere lo sguardo dall’esistenza di un meglio. Ma la loro critica, feroce e parziale, ci fa capire come l’«arte contemporanea» non possa dissimulare di camminare su fili sottilissimi, di aver messo mano, con la disinvoltura dell’apprendista stregone, agli ingranaggi di base della «differenza umana», di scherzare talvolta col fuoco, di presentarsi molto spesso con la pretesa di essere «il racconto di un naufragio e di una scomparsa». Di lavorare in ogni caso nel perimetro di una posta in gioco altissima. Questa coscienza del resto non manca. Perché per altri versi invece quello dell’«arte contemporanea», se esplorato al disotto degli stessi stereotipi di cui essa stessa sovente si compiace, si rivela un laboratorio di ricerca umana intenso e vivo, colto e creativo, oltre che variegato e multiforme, irriducibile a schematizzazioni di comodo; pieno di esperienze e figure che –come sempre ha fatto l’arte- tengono accesa la luce di una dignità «spirituale» dell’umano, difendendola e rappresentandola con una tenacia e una profondità che sfugge molto spesso alla retorica delle filosofie e delle teologie. Bisogna semplicemente scendere sotto la superficie dei clamori e degli scandali, dei divismi e delle copertine, e delle fatue provocazioni confezionate a uso e consumo di assessori e monsignori. Sotto questa superficie patinata, piena di fastidiosi riflessi, esiste invece un mondo serio, colto, raffinato, attaccato alla ricerca del senso come ogni vero gesto culturale di sempre. Basta saper cercare.

Ma per come vanno le cose oggi, sul fronte della vita cristiana, che continua a necessitare delle arti per dare forma al proprio immaginario spirituale e ai propri spazi rituali, la situazione è ancora acerba, per certi versi persino arretrata rispetto all’entusiasmo riconciliatorio della lettera papale. In giro si vedono alcuni, pochi, esperimenti elitari, promossi all’interno della chiesa da isolati cultori dell’«arte contemporanea», con qualche noto exploit istituzionale, che arriva alla Biennale di Venezia con ampia carica mediatica ma con scarsa rappresentatività reale. Questo pulsare elitario di un «aggiornamento» al contemporaneo viene sopportato da una vita cristiana di base che riserva una taciturna diffidenza, quando non una ostile repulsione, nei confronti dell’«arte contemporanea». In qualche situazione, mai portata realmente di fronte al pubblico dibattito, si tratta proprio di fenomeni di rigetto, come nel caso della Cattedrale di Reggio Emilia, nella quale a pochi mesi dall’inaugurazione dell’adeguamento liturgico, la cattedra episcopale realizzata da Jannis Kounellis è stata rimossa nel silenzio. La cultura cristiana di base del resto ha come operante fantasma interiore la potente estetica tridentina, mai del tutto estinta dalla memoria corporea della vita cristiana, dall’automatismo dei suoi gesti, dalla mnemotecnica delle sue liturgie. Nella persistenza di questo potente inconscio tridentino, perfettamente in funzione anche sotto il cosciente aggiornamento conciliare, le antiche glorie dell’«arte sacra», per quanto estinte nella loro realtà storica, sono risorte come «mito», come totem che guida lo sguardo dei credenti nel complesso mondo delle immagini, rendendoli refrattari a tutto quello che viene etichettato con dispregio come «moderno». Nell’habitat religioso del cattolicesimo contemporaneo il referente immaginifico del sacro continua a essere identificato nell’oggetto estetico «premoderno», di cui non si ritiene decisiva la qualità artistica e culturale, ma la sua continuità formale con un passato visivo morto nella storia ma vivo nei sentimenti. Un calice prodotto dalla più aggiornata e raffinata cultura del design lascerà presumibilmente perplessi, mentre la bigiotteria smaltata che riproduce la finta magnificenza del calice barocco sarà immediatamente riconosciuta come oggettiva evocazione del sacro cristiano.

In realtà –ed è questo il flusso magmatico che opera sotto il movimento delle croste di superficie- la questione dell’immaginario estetico della vita credente e la questione dell’arte per la liturgia sono solo aspetti specifici di un problema di fondo assai più radicale e complesso che riguarda i rapporti fra l’universo della vita cristiana e i processi della cultura contemporanea. L’arte è spesso la trincea lungo la quale si combatte un conflitto molto più vasto. Non si tratta quindi di una semplice questione di allineamento del gusto. Si tratta di rimettere a fuoco il complesso meccanismo estetico che governa la struttura liturgica e in cui si incarna la vita spirituale. Si tratta di esigenze che il medio pensiero credente riesce a sentire ma non riesce formulare, e di compiti che la cultura artistica non sempre sa comprendere e non sempre sa esaudire. Questa reciproca inadeguatezza rimarrà irrisolta fino a quando il «sentire cattolico» non avrà riguadagnato una fraterna stima della cultura che lo circonda e fino a quando la cultura artistica non avrà ritrovato sufficiente stima dell’«impresa» cristiana da offrirle il suo attento ascolto, e non semplicemente la sua altera elemosina progettuale. Che questo sia ancora un cantiere in costruzione lo dimostra la carenza di risultati veri, riconoscibili, persuasivi. In un saggio pubblicato di recente (Nuove chiese italiane (1861-2010), Vita & Pensiero) mons. Giancarlo Santi, già responsabile dell’ufficio beni culturali della CEI e ora presidente dei Musei ecclesiastici italiani, cerca di stilare un bilancio dell’inarrestabile attività di edilizia per il culto che dall’epoca dei neostili a oggi non ha perso un briciolo di intensità. I numeri sono impressionanti. Nei cinquant’anni che vanno dal Concilio a oggi in Italia si sono costruite più di cinquemila chiese. Significa cento all’anno. Un numero che fa impressione. Ma all’impressione generata dai numeri non corrisponde altrettanta sorpresa circa l’esito di questo imponente impegno. Lo stesso Autore del saggio, architetto e teologo, con la felpata cautela che continua a essere necessaria quando si parla pubblicamente di chiesa, deve lasciar trasparire la generale modestia dello stato dell’arte in fatto di architettura e arte per la liturgia cristiana. A parte scarse celebrazioni mediatiche di qualche rara e stracitata prova d’autore (da Botta a Meyer, da Michelucci a Piano) tutta questa febbricitante attività edilizia non ha lasciato tracce memorabili nel panorama italiano. Se non bicchieri mezzi vuoti o mezzi pieni, che non dissetano mai veramente, mantenendo così vive sia le ideologie sul campo che le polemiche corrispondenti. In questa situazione di stallo la committenza ecclesiastica non brilla certo per competenza. Men che meno per umiltà. Si riduce quasi sempre a far valere le sue piccole esigenze contenutistiche (più che teologiche e spirituali) ignorando quasi completamente il cammino che le arti e il pensiero hanno percorso fuori dal recinto ecclesiastico: cioè nel mondo reale. La sensibilità estetica che domina la vita cristiana di base, per la quale Picasso e Matisse sono al massimo la frontiera del contemporaneo (come se Adriano Celentano o Gianni Morandi fossero l’icona dell’hip pop) è del resto riflesso di una cultura credente che nella media è abbondantemente al di sotto, per conoscenze e competenze, della media cultura civile. Il problema dell’«arte contemporanea» nella liturgia suppone anche questi sintomi significativi.

Per questa ragione il caso che qui viene documentato rappresenta un piccolo miracolo. La chiesa dell’ospedale nuovo di Bergamo alimenterà il refrain di ben note obiezioni, il cliché collaudato della dialettica fra la creatività dei tecnici e il «bisogno di mistero» dei praticanti, chiamerà in causa il disco rotto dei luoghi comuni messi sul campo a difendere la pigrizia mentale di obiezioni fin troppo elementari. Ma ci si accorgerà presto che questa chiesa costituisce una prima volta. Si tratta della prima volta in cui un progetto architettonico colto nasce in perfetta armonia con un programma artistico e iconografico coerente con l’insieme, e affidato alle potenzialità –tutt’altro che impreparate anche sotto il profilo spirituale- di quella che comunemente abbiamo imparato tutti a chiamare «arte contemporanea» e che non sia quel novecentismo ecclesiasticamente accettabile con cui in chiesa ci siamo abituati a chiamare il «moderno». Un gesto di committenza consapevole e forte ha posto le condizione per una presenza artistica «contemporanea» non puramente tollerata come debito di margine allo spirito dei tempi, ma proprio come gesto fondatore della qualità teologica e liturgica dell’opera complessiva. Chi avrà occhi per vedere, con reale sensibilità spirituale e con effettiva competenza culturale, potrà vedere da sé, con grande immediatezza emotiva, la forza di linguaggi che hanno saputo stare nel perimetro di una logica tutt’altro che facile come quella della liturgia cristiana. Gli interventi artistici che questa chiesa non semplicemente ospita e contiene, ma da cui proprio riceve forma e sostanza, la cui esegesi in questo catalogo va lasciata a chi ha più competenze della mia, sono una dimostrazione di come anche l’«arte contemporanea» abbia risorse espressive e mezzi formali per soccorrere le aspirazioni di uno spirito che ha bisogno di comunicarsi sensibilmente, generando le forme di un’«arte sacra» svincolata dalla pura mimesi storica, anzi rinnovandone l’incanto e l’efficacia, la seduzione e l’inventiva. Dando modo di riconoscere, per contrasto, la pochezza e la modestia della vasta convenzione estetica regnante nelle nostre chiese, teologicamente insipida e spiritualmente innocua, a dispetto della sua rassicurante riconoscibilità. Persino il credente perplesso potrà ricavarne le sue sorprese. Il segnale è di quelli importanti. Ha di che alimentare molti sospiri di sollievo e consentirci di guardare con ammirazione un esperimento in cui innegabilmente si sentono i primi segnali di una nuova amicizia.