Correggere gli altri è difficile. Denigrare è facile

 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano… (Vedi Vangelo di Matteo 18, 15-20). Per leggere i testi liturgici di domenica 7 settembre, ventitreesima del tempo ordinario, clicca qui.

LA CORREZIONE DEL FRATELLO E I SUOI RITMI LENTI

Il vangelo di oggi parla della pratica della “correzione fraterna” che già l’Antico Testamento raccomandava. Nel libro del Levitino si legge: «Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore». La correzione, però, non deve “bruciare le tappe”, ma seguire un processo lento e quindi caritatevole. Gesù parla di “guadagnare” il fratello, espressione che fa venire in mente Paolo che racconta di essersi fatto tutto a tutti per «guadagnare” tutti a Cristo» (Prima lettera ai Corinzi).
Dunque la prima tappa consiste in un rapporto personale con il fratello che pecca. Se il fratello peccatore non ascolta, ci si deve appellare a due o tre testimoni. Non si tratta di una “citazione” di testimoni per una specie di processo, ma di raccogliere un gruppo minimo di fratelli per rendere più efficace la correzione. Un solo testimone, infatti, potrebbe dare l’impressione di un’iniziativa dettata dalle sensazioni personali. Due o tre insieme possono invece apparire come i rappresentanti qualificati della comunità.
Può però succedere che il peccatore non ascolti neppure il gruppo di fratelli che lo ammoniscono. In quel caso bisogna riferire il caso all’”assemblea”. L’“assemblea” è l’insieme della comunità cristiana in cui il fatto avviene. Ricordiamo che in ebraico Israele era chiamato l’”assemblea di Dio” e che il NT vede la Chiesa come la nuova assemblea di Dio. Se, arrivati a questo punto, il peccatore non ascolta neppure la comunità dei fratelli, «sia per te come un pagano e un pubblicano», cioè sia considerato escluso dalla comunità: massima pena possibile, che, per un ebreo ai tempi di Gesù, corrispondeva a una morte civile e religiosa.
E Gesù aggiunge: «In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo». Il potere dato a Pietro due capitoli prima viene esteso a tutta la Chiesa. Quello che la Chiesa fa sulla terra, dunque, viene sanzionato in cielo. La Chiesa fa emergere nella storia degli uomini la misericordia e il giudizio di Dio. Si capisce, quindi, che la Chiesa possa essere anche il “luogo” del dialogo con Dio: «In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà». Due persone è il numero minimo perché si possa parlare di una comunità. Basta quel piccolo abbozzo di comunità, dunque, perché la presenza del Signore sia assicurata ai suoi discepoli. La presenza di Gesù in mezzo ai suoi rimanda alla suggestiva immagine della tenda che si sposta con il popolo. «Se due siedono avendo fra loro le parole della Legge, fra essi vi è la sekinah», cioè la tenda della dimora di Dio, dice un testo rabbinico.

LA CONDANNA NEL VILLAGGIO GLOBALE 

Oggi non godiamo più della possibilità di un procedimento di correzione fraterna così come descritto nel Vangelo. E’ rimasto, quando c’è, il gesto personale: quando qualcuno sbaglia, qualche volta succede che qualcuno ha il coraggio di farglielo notare. Ma tutto si ferma lì. Eppure oggi soprattutto avremmo necessità di una istituzione comunitaria come quella della correzione fraterna. Nella società in cui viviamo, infatti, predomina soprattutto il giudizio. Questo viene forse dal fatto che viviamo moltissime relazioni, quelle corte con le persone vicine e quelle lunghe con la società, il lavoro, la politica. In questa rete di rapporti la nostra società è diventata il “villaggio globale” di cui hanno parlato a lungo i sociologi nei decenni scorsi e che noi viviamo nei fatti oggi. Nel villaggio tutti sanno tutto di tutti. E si parla. Le nostre condanne degli uomini pubblici stanno la villaggio globale come le chiacchiere sulle porte di casa stanno al piccolo paese di provincia. In queste chiacchiere domina il giudizio, la condanna. Manca il rapporto personale e la carità della correzione.

I DIFETTI ALTRUI NOTI E I DIFETTI PROPRI NASCOSTI

I nostri giudizi che così spesso enunciamo possono nascere non dalla preoccupazione del bene del fratello, ma dalla soddisfazione che i suoi difetti provocano in me. In altre parole: so di avere molti difetti, so che non mi impegno come dovrei per essere più giusto, più servizievole, per tenere a freno i miei affetti sregolati… Trovo qualcosa del genere anche nell’altro e lo denuncio. Come a dire: ah, ecco, anche lui! Più mi dà fastidio il mio male e più prendo gusto nel denunciarlo nell’altro. La mia mediocrità fa meno scandalo se non sono il solo ad essere mediocre. Chiediamoci, infatti, perché tanto accanimento nello scovare i difetti degli altri e nel denunciarli? Davvero solo passione per il bene altrui o non piuttosto fastidio per il male mio che cerca furbescamente delle connivenze?