Volontari in corsia: vicini ai malati, perché la solitudine fa più paura della malattia

Nella Dichiarazione Congiunta sui diritti dei malati di cancro, risalente al 2002, è citato, tra i punti chiave, il “diritto al supporto psicologico”. Cosa si intende, nello specifico, per supporto psicologico? E come fare a garantirlo? Cerchiamo di capirlo con le testimonianze di alcuni volontari della Associazione Oncologica Bergamasca (A.O.B.).
L’Associazione Oncologica Bergamasca è una Onlus attiva sul nostro territorio dal 1999. Nata per volontà di un gruppo di medici oncologici dell’Ospedale di Bergamo, si pone come obiettivo – si legge sul sito dell’associazione – di “dare risposte concrete ai bisogni e di facilitare il percorso di cura e la qualità della vita dei malati oncologici e delle loro famiglie”. Ad oggi conta una sessantina di volontari, i quali svolgono diverse mansioni a supporto del personale ospedaliero presso il reparto di oncologia e radioterapia del “Papa Giovanni XXIII”.
In occasione dell’iniziativa “Muoviamoci insieme” – promossa dall’Associazione in collaborazione con Sportpiù e volta a favorire uno stile di vita sano –, cogliamo l’opportunità di scambiare quattro chiacchiere con alcuni dei volontari A.O.B. che ci parlano del loro ruolo e della loro esperienza in reparto.

«Sono 13 anni che sono in A.O.B. ma, prima ancora di diventare volontaria, sono stata paziente e so cosa vuol dire avere un minimo di sostegno, di conforto» ci racconta la signora Castelletti, volontaria a sostegno delle donne operate al seno: «La malattia oncologica segna un percorso: c’è sempre un prima e un dopo. Ognuno reagisce in modo diverso a questa malattia e noi volontari, che dobbiamo interagire con queste persone, dobbiamo riuscire ad adeguarci a quello che è il loro stato.» E continua «quello che i pazienti chiedono è semplicemente un po’ di vicinanza e qualcuno che li capisca. A loro basta trovare una faccia amica in questo luogo di sofferenza».
L’empatia. È forse questa la dote più importante che deve avere un volontario? Provare una vicinanza emotiva, sentire quello che prova l’altro? «La vera domanda che un volontario deve farsi è: sono in grado di portare avanti questo lavoro, di farmi accettare da una persona che non mi conosce?» dice Pagani, volontario A.O.B. da 10 anni: «sicuramente, oltre all’empatia, bisogna avere umiltà e molta serenità: uno non può guardare il paziente in modo altezzoso, con superiorità. Bisogna essere umili, saper accettare anche situazioni sconvenienti, bisogna sapersi mettere al servizio degli altri». E le soddisfazioni non tarderanno ad arrivare: «L’aspetto più gratificante arriva quando capisci che ricevi più di quello che dai. Quando qualche ex paziente mi riconosce e mi saluta per strada e vedo che si è ripreso dalla malattia».

Anche qui ci sono però dei rischi del mestiere, come ci racconta Amaglio (da 7 anni nel volontariato): «La grande sfida, per entrambe le parti, è quella di superare una possibile diffidenza; se c’è diffidenza non c’è apertura ed è inutile provare ad instaurare un rapporto. Il tumore è ancora considerato il “mal bröt”, in bergamasco e definito, in italiano, il male incurabile. Questi presupposti portano, talvolta, il malato a non accettare le cure e a rinchiudersi in se stesso, rifiutando qualsiasi forma di aiuto».

Compito del volontario è anche quello di alimentare la speranza nella buona riuscita della cura ma, conclude uno degli intervistati: «Capita spesso di tornare in reparto e non trovare uno degli ammalati. In questo caso, la mia speranza è che abbia potuto andarsene con le proprie gambe».