Via Monte Grigna, Celadina: la periferia abita qui. In viaggio tra le case occupate

Le periferie non sono solo «alla fine del mondo». Bergamo è una piccola città, ma ci sono comunque persone in difficoltà che si sentono costrette a compiere scelte fuori dalla legalità come l’occupazione delle case. A volte sono scelte che nascono non solo dal bisogno ma anche dall’ideologia e rappresentano segnali di rottura, estremi, rispetto al «sistema».
Accade anche in via Monte Grigna, Celadina, dove alcune case popolari di proprietà comunale, a lungo abbandonate, sono state risistemate e ripopolate da attivisti, famiglie in difficoltà, immigrati. Una situazione al limite, in un quartiere che ha già tanti «nodi» da tenere a bada, con il rischio che nasca un ghetto. Ma proprio da quelle case, da quelle famiglie, è arrivato nei giorni scorsi un appello a una nuova socialità, all’incontro, al confronto, cercando di coinvolgere la città con attività «alternative», semplici, dalle grigliate alla mazurka, con il proposito di creare e non di rompere legami, anche con persone che la pensano e vivono diversamente. Hanno partecipato in molti. È stato lo spunto per “mettere il naso” in questa situazione, per conoscerla e raccontarla. Senza giudicare, ma anche senza condividere metodi, fatti, ideologie. Consapevoli che il quartiere di Celadina è molto altro: come racconta il parroco, don Mario Carminati, è una comunità dall’identità forte, unita e accogliente, capace di solidarietà, attiva di fronte ai problemi che ci sono, anche quando è difficile come nel rapporto con  una realtà delicata come questa. Un primo viaggio, al quale ne seguiranno altri, alla scoperta delle zone di frontiera che esistono anche a pochi passi da noi.

Una città, persino la nostra, è fatta anche di contraddizioni. E in via Monte Grigna, a Celadina, zona di case popolari a due passi dal carcere, le contraddizioni non mancano di certo: un quartiere storicamente popolare, all’epoca della crisi, si trova continuamente a dover fare i conti con il rischio di diventare un ghetto.
E in questa realtà indubbiamente difficile, alcune case popolari di proprietà comunale da lungo tempo sfitte e lasciate all’abbandono sono state occupate da un gruppo di attivisti del Comitato Lotta per la casa di Bergamo. Ma questo problema, l’emergenza abitativa, non riguarda solo la Celadina. In un periodo di forte crisi come quello attuale,  la questione-casa è molto sentita.  Un problema complicatissimo, irto (per l’appunto) di paradossi, di inefficienze, di interessi, di forzature illegali (come lo sono le occupazioni abusive, è bene specificarlo), ma anche di volti, di persone che non è possibile ridurre meramente a un numero in graduatoria. Ed ecco che a Celadina, in via Monte Grigna 11 (dove dallo scorso febbraio una palazzina di proprietà comunale è stata occupata da famiglie di migranti, precari e attivisti) nello scorso weekend è avvenuto un fatto inedito, almeno a Bergamo: gli occupanti hanno deciso di organizzare una tre giorni di festa, ribattezzata «Celada in strada», coinvolgendo il quartiere e molte altre associazioni del circuito alternativo bergamasco. Una festa nata dal basso.
Ci siamo avvicinati, senza pregiudizi, alle persone che hanno partecipato a questa tre giorni, cercando di cogliere bisogni e aspettative di un quartiere di periferia con molti problemi, tra persone che vivono consapevolmente ai margini della legalità. Anche a Bergamo, insomma, esiste una periferia profonda, fuori dai confini della correttezza formale.
«Questo è un angolo dimenticato della città – ci spiegano gli organizzatori della festa – qui abitano persone con difficoltà, economiche e sociali, che a volte si sentono abbandonate».
Alla festa hanno partecipato realtà molto diverse tra loro, che hanno dato il via a varie attività, per creare un clima allegro e positivo: dal mercatino agricolo Km 0 ai Graffiti in quartiere, dal  laboratorio di hip hop con piazza Dante Jam + Spin That Shit live, dai laboratori per bambini degli “Orti storti”, agli stage di mazurka e balli popolari. E ancora: ciclofficina di strada, musica biciclettata in quartiere, proiezione di film e spettacoli con artisti di strada e mangiafuoco.

IL PARROCO: NON DEVE DIVENTARE UN GHETTO

Don Mario Carminati, parroco di Celadina, non ama la definizione di “ prete di frontiera ” anche se lo è a tutti gli effetti. E tutti i giorni si batte per far vivere bene la propria comunità, affrontando i problemi (che non  mancano) di questa zona della periferia di Bergamo, situata al confine con Seriate e Gorle.
«Celadina è un quartiere multietnico, ma ha sempre saputo trovare un certo equilibrio – ha sottolineato lo stesso don Carminati – e non si sono mai creati particolari disordini. Già negli anni Cinquanta e Sessanta c’erano gli sfollati del Polesine e della ex Jugoslavia e immigrati da tutte le regioni d’Italia. In questo contesto la parrocchia e la comunità ecclesiale hanno saputo fare da filtro e da elemento di coesione sociale, assumendo un ruolo di tutela e di punto di riferimento per tutti i cittadini del quartiere».
Celadina è dunque in prima linea per quanto riguarda l’integrazione nella nostra città, anche se non mancano i problemi: «Qui abitano parecchi musulmani: molti dei loro bambini frequentano l’oratorio, ma gli adulti, per esempio le mamme, sono come invisibili: non parlano con nessuno e faticano ad entrare in contatto con il resto della comunità. Il nostro lavoro si concentra, inoltre, sull’educazione dei bambini e degli adolescenti, ma è un lavoro duro e che va fatto giorno per giorno: occorre seguirli costantemente, perché la realtà che vivono è spesso problematica. Detto questo il quartiere è molto tranquillo, ha una sua identità forte e la comunità ecclesiale è unita e ben radicata».
Nella zona delle case popolari una palazzina di proprietà comunale dallo scorso febbraio è stata occupata da un gruppo di attivisti della lotta per la casa: cosa ne pensa? «Credo che andare a caricare ulteriormente una zona satura, che ha già notevoli problemi, possa essere controproducente: in tutta onestà non so cosa ne possa venir fuori. C’è il rischio che si crei un ghetto? Sì, ma bisogna evitare quest’ipotesi. Detto questo, quelle case popolari erano lasciate un po’ a loro stesse, non so se l’obiettivo del Comune fosse riqualificare la zona o meno: di certo per molto tempo sono state abbandonate».

ORTI STORTI: LA TERRA CONDIVISA

Paula Serna, 32 anni, di professione microbiologa, lavora all’Ospedale Papa Giovanni XXIII in qualità di borsista. E anche lei ha deciso di partecipare alla festa «Celada in strada», svoltasi nello scorso weekend, organizzando un laboratorio di riciclo per bambini, dedicato alla riscoperta delle erbe aromatiche.
Paula è da tempo impegnata sul fronte della divulgazione (rigorosamente dal basso) del mondo naturale sporcandosi le mani: fa parte, infatti, del collettivo « Orti Storti – gli eco-warrior della Bergamasca», che aveva occupato per circa un anno gli orti comunali a Colognola, in via Azzanella. «Il nostro modello è l’autogestione e quegli otto appezzamenti adibiti a orti comunitari non erano utilizzati da nessuno: il bando comunale era infatti andato deserto. Noi abbiamo cercato di recuperarli, senza volerci guadagnare, ma semplicemente piantando peperoni, pomodori e altra verdura di stagione, (che per la verità, non è stata delle migliori a causa delle piogge frequenti): in questo modo condividiamo le conoscenze con gli altri: negli orti di Colognola capita spesso, infatti, che giovani, migranti e anziani lavorino insieme».
Da qualche tempo un privato cittadino ha messo a disposizione degli «Orti Storti» uno spazio che condividono con altre persone per coltivare un orto. La loro parola d’ordine è «condivisione». «Guardiamo alla terra con un approccio alternativo e stimolante rispetto ad un utilizzo privatistico e individualizzato. Per noi interessarsi dell’ambiente significa portare avanti esperienze di socialità, di condivisione del tempo e di scambio delle conoscenze e dei saperi legati alla terra e ai suoi prodotti».

LA STORIA DI UN OCCUPANTE: PRECARIO, UNA VITA IN BILICO

Marco, 24 anni, è uno degli occupanti della palazzina, di proprietà comunale, di via Monte Grigna 11. Ha accettato di parlare con il nostro settimanale, a patto di non pubblicare il proprio nome per esteso. Marco rappresenta il volto duro della lotta per la casa: ma a vederlo, gentile e sorridente, ha l’aspetto di un ragazzo qualsiasi.
«Sono arrivato qui alla Celadina a fine gennaio. Cosa faccio nella vita? Sono un operaio, con un contratto precario fino ad ottobre, che cerca di finire l’università, e vivo con altri ragazzi come me all’interno della palazzina occupata: c’è chi è precario all’Esselunga, un’altra ragazza fa l’educatrice in un asilo a 600 euro al mese. La situazione di un giovane nel 2014 è questa: come possiamo permetterci di pagare un affitto proibitivo, con gli stipendi che abbiamo e senza alcuna sicurezza che i nostri contratti vengano rinnovati? Nessuno di noi vuole rimanere a casa con i genitori fino a 40 anni, per noi forzare le regole è stata una necessità».
Rimane però il fatto che occupare una casa rappresenta un atto illegale. «Per me è comunque peggio buttare le famiglie in mezzo a una strada se non possono permettersi di pagare un affitto, come è successo a Roma. Legalità e illegalità: è una questione di termini. Lo sai che a Bergamo ci sono più di 2.000 sfratti all’anno, a fronte di 250 case comunali sfitte, completamente vuote? Questo invece è perfettamente legale».
Siete anche sotto minaccia costante di sgombero e nella palazzina, come hai detto, vivono famiglie con bambini anche piccoli. Non avete timori per la vostra e la loro incolumità? «Io vivo qui da 7 mesi, ormai, e vivo questa situazione quotidianamente: so che la situazione è delicata, ma riesco a dormire lo stesso. Ti ho citato l’esempio di Roma non a caso: là sono intervenuti con caschi, manganelli e camionette per sgomberare delle famiglie. Ma la stessa cosa avviene qui da noi: non ricordo più le volte in cui abbiamo impedito uno sfratto esecutivo di una famiglia con bambini piccoli. Sai quale soluzione ti propongono? I bambini e la madre in comunità, il padre in mezzo alla strada: per noi è arrivato il momento di dire basta».
Che rapporto avete instaurato con il quartiere e come si vive all’interno di una palazzina occupata? «Di certo non è un condominio come gli altri, dove la gente a malapena si saluta. Noi condividiamo tutto e cerchiamo di darci una mano l’uno con l’altro: io lo vivo come impegno politico, ma anche come desiderio di stare tra la gente. E la festa di questi giorni, dove sono state tantissime le persone del quartiere che hanno scelto di partecipare, significa voler rimettere le periferie al centro. Sui giornali leggo sempre di notti bianche, di promozione di un centro cittadino fatto di vetrine e banche: la città vera è la periferia».