Luciana, biologa in Bolivia: “Anch’io ho imparato molto dalle persone che ho incontrato”

Luciana Foti ha 42 anni, quasi 43, è sposata, ha due bambini e fa l’insegnante alle scuole serali di Ponte San Pietro. La formazione degli adulti è per lei il più bell’ impegno. Prima di tutto questo,  prima di vivere la sua vita di moglie e madre, Luciana ha fatto una scelta: nell’ottobre del 1999 è partita per la Bolivia. Un viaggio che non sapeva sarebbe diventato la sua più grande esperienza nel mondo e nel suo percorso di crescita.
Già collaboratrice del Centro Missionario Parrocchiale di Ponte San Pietro negli anni universitari, Luciana viene coinvolta da don Mario Morè a creare un gruppo missionario giovanile. Per organizzare una giornata di attività per i più piccoli della comunità si reca al Celim alla ricerca di materiale video e lì inizia a crescere in lei la curiosità. Don Mario negli anni la esorta «È ora che parti!», ma dapprima la laurea in biologia e poi l’iscrizione alla scuola di specializzazione in biochimica la frenano. Luciana non può permettersi di abbandonare gli studi, sarebbe motivo di dispiacere per lei e per tutta la sua famiglia.  Qualcosa nel frattempo succede, qualche… «stella si allinea» e inizia a «rompere le uova nel paniere» di Luciana. Nel 1996 le prime richieste di un biologo in Bolivia. Daua Zanelli, responsabile dell’organizzazione dei progetti nonché consigliera del Celim, riconosce in Luciana la persona giusta. La proposta è per tre anni a Sacaba, per avviare un’opera di volontariato internazionale, finanziato dal Celim e dal Ministero degli Affari Esteri.
A poco più di 20 anni è però troppo difficile lasciare il proprio paese per visi e città sconosciuti. Sarà durante un congresso a Roma sulle malattie epatiche che Luciana ci pensa e ripensa. Così. Senza un preavviso, nella nostra biologa si fa largo la necessità di partire.
«Dovevo trovare il mio equilibrio, non potevo pensare di partire senza garantire per me stessa e per gli altri la tranquillità interna. Convivere con linguaggi e forme di pensiero totalmente diverse dalle nostre, nutrirsi di cibi e odori mai conosciuti prima, occupare spazi mai calpestati e vivere la giornata secondo ritmi mai posseduti… beh, era assolutamente necessario essere pronti per tutto quello. E io in quel frangente ho capito che potevo e dovevo farcela». L’unica condizione di Luciana è la possibilità di non interrompere gli studi. Anche in questa richiesta tutto procede per il meglio. Il Preside della facoltà di Biochimica e chimica dell’Università di Milano concede la sospensione della frequenza alle lezioni a patto che in Bolivia la ragazza possa seguire un tirocinio di formazione universitario.
«Ho fatto il tirocinio richiesto e durante quei tre anni organizzavo rientri in Italia per poter dare gli esami. La stessa laurea l’ho conseguita nel novembre 2001, nel pieno della missione» mi racconta Luciana. Nell’ottobre del 1999 la partenza. Compito di Luciana è avviare un laboratorio di analisi di primo livello e riuscire a formare personale in un’ottica di sostenibilità del progetto. Negli ultimi tre mesi che precedono il volo segue un corso di microbiologia all’Ospedale di Bergamo. E finalmente arriva in Bolivia. Qui troverà Andrea, che diventerà suo marito nel 2003 e poi presidente del Celim, e verrà raggiunta a dicembre da Nicola e sua moglie Lorena, che daranno alla luce un bellissimo bambino proprio durante il progetto.
Nicola e Andrea formavano tecnici agropecuari, insegnavano l’allevamento di piccolo bestiame, metodologie di riforestazione e l’agricoltura in piccole serre. Luciana mi confessa che erano molto bravi, forse più di lei. Sapevano creare connessioni molto forti tra le popolazioni e il Celim, che purtroppo rischiava così di essere ostacolato dalle associazioni del posto. Così accadde per il progetto di Sacaba infatti. Ai 3 anni di avviamento si volevano associare ulteriori 3 anni di riconduzione per ampliare il sistema di irrigazione del paese, ma il rischio di spaccare la comunità non era da percorrere per il Celim. Anche Luciana viene ostacolata. Le viene impedito l’ingresso in laboratorio. Grandi frustrazioni, ma anche una grande gioia e soddisfazione quando viene a sapere che uno dei ragazzi che ha seguito il suo percorso di formazione ha aperto un laboratorio dall’altra parte della Valle. Lei sì, non entrerà più in laboratorio, ma al suo posto tanti altri boliviani infermieri faranno esami del sangue ai loro concittadini. Prima di rientrare in Italia viene affidato a Luciana lo studio di fattibilità di un nuovo progetto all’interno delle carceri boliviane.  L’esistenza di attività e movimenti all’interno degli istituti di detenzione non porta però i presupposti per lo sviluppo del percorso, quindi i ragazzi tornano a casa.
“Quando si torna con la mente a quei giorni, torna una grande ricchezza. Ho potuto provare sulla mia pelle una vera dimensione comunitaria. Vivevamo tutti e quattro nella stessa casa, che seppur grande, ci vincolava a stare uniti. E fuori c’erano madri, uomini, bambini e anziani che dovevamo conquistare, a volte si rischiavano scontri e gli inserimenti non erano mai semplici. Uno dei nostri obiettivi era assicurare la sostenibilità del progetto. Coordinavamo i corsi di formazione che erano tenuti da enti locali, secondo l’ideale connessione che dovrebbe esserci tra ong e istituzioni del luogo. L’approccio seguito era molto pratico,  gli adulti non hanno bisogno di teoria.  Insegnavamo loro il bene stare, il pensiero comune, il primo soccorso, l’educazione e l’igiene comune. E tanto abbiamo imparato da loro. Oggi sto educando i miei figli seguendo alcuni dettami appresi osservando le madri boliviane e posso assicurarvi che ogni mia scelta, passata o futura è stata influenzata da quello che ho conosciuto e provato in Bolivia. La terra dove i bambini non piangono mai.“