Il mestiere di indignarsi: Emergency e Cecilia Strada lasciano il segno

Qual è il giusto modo di indignarsi? È la domanda che si è posta «Molte fedi sotto lo stesso cielo» quando ha scelto di inserire all’interno del ciclo di incontri «parole per ricominciare» la parola «indignazione». Così ieri sera è salita sul palco del teatro Serassi di Villa d’Almè Cecilia Strada, presidente di Emergency, raccontando il significato di questa parola nella sua vita.

L’associazione è nata 20 anni fa grazie ai suoi genitori, Gino Strada e Teresa Sarti, per offrire cure gratuite e di elevata qualità alle vittime della guerra e della povertà nel mondo, e di recente ha aperto dei poliambulatori anche in Italia. Sono stati 20 anni di medicina e di costruzione di diritti umani. «L’indignazione non è lo sfogo di una sera o un momento di rabbia, ma ha senso solo se porta a qualcosa di concreto». È la risposta di Cecilia: una giovane, una donna, bianca, italiana, madre, sociologa, attivista.
Le sue parole scorrono decise e incisive dal microfono e raggiungono tutti in sala, mostrandoci scenari dall’Afghanistan, paese di predilezione e su cui ha scritto anche la tesi, dall’Iraq, dal Sudan, dalla Sierra Leone e dall’Italia.
In un periodo in cui il nostro paese è affaticato e sfiduciato l’indignazione è la diretta emozione di una persona che sente che c’è qualcosa che offende il senso dell’umano, la dignità, la giustizia, e questa emozione si muove dentro di sé. È una combattiva speranza che non si arrende al senso di impotenza e non le permette di accettare lo status quo, portandola ad agire.

MINE ANTIUOMO
La guerra imperversa da anni, Emergency è presente dal 1999 in Afghanistan e ancora muoiono bambini sulle mine antiuomo, negli ospedali affollati 1 su 3 sono bambini. Ma ci siamo mai fermati a pensare a che tipo di arma è questa?
«Un bambino di 12 anni muore alla fine degli anni ’90 per una mina sovietica – ci racconta Cecilia – a causa di una mina di una guerra finita nell’89». Sono armi inventate per mutilare, non per uccidere. Un mutilato costa perché non può lavorare e le persone lasciano il lavoro per prendersi cura di lui. «Sono armi che cancellano il significato di dopo-guerra, che non smettono di sparare potenzialmente per sempre».

La risposta di Cecilia si snoda in due aspetti: l’indignazione deve portare a degli effetti concreti sull’individuo e sulla società. Se all’individuo è stata sottratta la dignità bisogna restituirgliela: insegnargli un lavoro e inserirlo in una cooperativa di lavoro dove possa esercitarlo (delle start up che poi diverranno autonome). In Iraq Emergency ha aperto corsi di formazione professionale di 6 mesi: falegnameria, carpenteria, oggetti artigianali e sartoria. I pazienti non sono più un peso per la famiglia e contribuiscono attivamente al benessere della comunità. In Afghanistan invece è stato aperto un centro di maternità dove sono state formate da zero 45 donne come infermiere e ostetriche, dovendo combattere la mentalità maschile che trovava loro posto «solo in casa o nella tomba».

Se si vuole agire a livello sociale invece bisogna metterci la faccia e soprattutto la voce coi rappresentanti politici, e non è mai facile ottenere qualcosa. Emergency ha istituito una campagna internazionale per mettere al bando le mine antiuomo ed ha mandato una cartolina al presidente della Repubblica con un tipico registro di entrata nei loro ospedali, compilato. I pazienti stavano spesso andando a prendere l’acqua al fiume, giocando o portando le pecore al pascolo quando hanno toccato una mina. C’è stata una moratoria e poi l’Italia ha messo al bando questo tipo di armi, perciò non le potrà più produrre. «Ma esistono ancora le Cluster Bomb – sottolinea Cecilia – che hanno lo stesso effetto».

GUERRA, POVERTA’ E SOLDI
Che cos’è la guerra? Cecilia: «La più precisa definizione che ho trovato è questa: la guerra è odore di sangue e merda e di bruciato, della pelle delle persone che brucia».
Quando c’è una guerra bisogna sempre fare un ragionamento a ritroso, dalla persona che spara al fucile al proiettile: chi fornisce le armi? Qual è la nazione che non si oppone alla guerra perché ha delle nazioni alleate che la sostengono e quindi ha paura di averla tra i nemici? «C’è qualcuno che guadagna su un proiettile che finisce nel cranio di un lattante» dice Cecilia. Anche durante la crisi l’Italia mantiene ancora le spese militari, ma la guerra porta altra guerra, non porta mai alla pace. Abbiamo oggi la ragionevole certezza che le guerre siano una strada che non funziona: «Il terrorismo non è stato sconfitto, il califfato islamico non è stato sradicato, le donne portano ancora il burka, non c’è ancora democrazia e pace in questi paesi». C’è bisogno di denaro sano, di lavoro e di istruzione, di cambiare la mentalità delle persone, di assicurare i diritti a tutti. È importante la gratuità delle cure, alcune madri in Africa non possono pagare per guarire totalmente un figlio e quindi, piuttosto di rischiare che comunque non guarisca, aspettano. Se guarisce bene, se no usano i soldi che hanno “risparmiato” per mantenere gli altri figli. Non è giusto.
«Se qualche bambino in Sudan invece che di morire di malaria o di diarrea muore per problemi al cuore, perché non hanno diritto ad avere un centro di cardiochirurgia?». Oppure: «Se in Italia esistono ancora esempi di schiavitù come il caporalato, o nuovi tipi di povertà, perché non li dovremmo curare e mostrare loro i diritti che invece dovrebbero avere?». E ancora: «A Marghera degli italiani ci chiedevano se per favore li curavamo, se anche loro potevano essere curati o solo gli stranieri».

GUERRA E POLITICA
«I politici apprezzano il nostro lavoro, ma spesso preferiscono che non parliamo». I medici volontari di Emergency sono stati definiti irresponsabili, indifferenti nei riguardi della popolazione civile, codardi, e per lo più sono stati sbeffeggiati, derisi o ignorati.
Cecilia non perde i toni razionali ed emozionati quando le sembra di svuotare il mare con un cucchiaino. Sa che la sfida di Emergency è grande, bisogna riuscire a diventare inutili per questi paesi, ma continuerà sistematicamente il suo lavoro, riconoscendo in ogni paziente uno dei suoi figli e continuando il dialogo con le istituzioni: «Noi facciamo un’attenta analisi del problema e proponiamo una soluzione. Hai una soluzione migliore? Ben venga, se no, perché non fai così? E poi torniamo e verifichiamo, e se non è andata come doveva riproviamo dall’inizio».