La folla CGIL e la solitudine di Renzi. I problemi si incrociano

Al termine di un week end tutto politico, abbiamo capito un paio di cose. La prima: il Pd si stabilizza al centro della vita nazionale. La seconda: la quinta edizione della Leopolda a Firenze, la culla del renzismo, e il milione di persone che la Cgil ha portato in piazza a Roma contro la manovra del governo, o meglio contro il premier, sono state due prove di forza riuscite. La terza: Renzi da una parte, la Camusso e la sinistra interna del Pd dall’altra non hanno alcuna intenzione di cambiare e, allo stato, ognuno va per la sua strada.

Detto in altro modo: abbiamo assistito a due successi, che pero’ ne hanno svelato anche i limiti mettendo in difficolta’ tutta l’area democrat. Renzi non la pensera’ cosi’, tuttavia per un governo di centrosinistra essere sfidato in modo frontale dal principale sindacato è un problema. Ma lo è anche per la confederazione della Camusso, che ha giocato un ruolo tutto politico che dovrebbe essere improprio per un sindacato. E, infine, un problema lo è anche per la minoranza del Pd che, riparandosi dietro la capacità di mobilitazione del sindacato, rimane attardata in quella solitudine che già l’ha portata alle sconfitte.

IL SINDACATO DELLA CAMUSSO E QUELLO DI COFFERATI

Per questi due mondi – come ha scritto il direttore di “Europa” Stefano Menichini – la prova più difficile da affrontare sarà un’altra: «Sarà mettersi in gioco in positivo per il bene di tutto il Paese abbandonando le strade che nel passato hanno condotto invariabilmente a brutte illusioni e a sconfitte per il mondo del lavoro». La Legge di stabilità e il Jobs Act meritano di essere corretti nel cammino parlamentare, ma non andrebbero respinti in blocco anche scrutati dal versante della sinistra riformista: parliamo pur sempre del primo tentativo di uscire dalla gabbia dell’austerità, puntando su interventi espansivi e cercando di rispondere alle richieste di una platea plurale. Una partita, poi, che si gioca quasi esclusivamente sull’asse Roma – Bruxelles, dove peraltro Renzi si muove con abile spregiudicatezza. Nel gioco delle analogie, in questi giorni si è richiamato il precedente del 2002 quando Cofferati portò in piazza tre milioni di persone. Era il periodo in cui il segretario della Cgil svolgeva, di fatto, pure il ruolo di leader del correntone, l’ala sinistra dell’allora Ds: sappiamo come è andata a finire. Fra questi due momenti, tuttavia, c’è un’evidente differenza: allora il sindacato manifestava contro il governo di centrodestra, oggi lo stesso sindacato (un pezzo consistente della sinistra) contesta il governo di centrosinistra.

L’AUTONOMIA DEL SINDACATO

La sfida riuscita della Cgil non attenua la vera questione di tutti e tre i sindacati confederali, una questione che viene da lontano e che ora coincide con il fuorigioco della concertazione decretato dal premier: quale deve essere il lavoro del sindacato e quale deve essere il rapporto con la politica in un’Italia cambiata. La questione fu posta da Savino Pezzotta quando guidava la Cisl, ma poi non se ne fece niente: l’autonomia del sindacato, come noto, è sempre stata annunciata ma raramente praticata. La Leopolda e la piazza della Cgil si sono consumate sul limite della frattura tra due Pd, eppure non sembra la replica automatica del confronto che nell’ultimo mezzo secolo ha diviso le due sinistre. Nella Prima e nella Seconda Repubblica il conflitto è avvenuto per l’egemonia di una minoranza (qual era la sinistra), significativa certo ma pur sempre minoranza. Oggi, invece, lo scontro è tutto interno al Pd, il primo partito del socialismo europeo, e riguarda la sostenibilità riformista del governo nel quadro di un sistema politico in movimento, dove Renzi ha sostituito la coppia sinistra – destra con quella nuovo – vecchio: il renzismo in sostanza coincide con la volontà di superare il potere di veto di questo o quel gruppo organizzato (vedi alla voce sindacato). Per quanto il premier e leader del Pd sia un attor giovane che non convince sino in fondo e per quanto alcuni suoi tratti guasconi siano discutibili, il renzismo è tutto: partito, governo, istituzioni, un sentire che domina la realtà l’immaginario collettivo. C’è persino dell’eccesso a rischio conformismo. Il disegno renziano porta a compimento lo schema del partito a vocazione maggioritaria di Veltroni, spostando il confine del populismo di sinistra per entrare nel terreno inesplorato di una politica pop di centrosinistra. E’ in questo contesto che si annuncia la fase 2 del renzismo, dove a espandersi non è la sinistra bensì il corpaccione disteso sull’asse centrale. Dopo aver rottamato la vecchia nomenclatura, aver ridisegnato il proprio campo da gioco e dopo aver messo fuori corso le logiche dialettiche di un tempo, il capo del governo si appresta a lanciare il partito della nazione.

IL PARTITO SUPERMARKET

In realta’ non si sa bene che cosa contenga questo termine che rinvia all’esperienza inglese: in linea approssimativa dovrebbe essere un partito supermarket, pigliatutto, capace di fare breccia nell’elettorato di centrodestra come già avvenuto alle europee, in grado di essere l’espressione di tutto il Paese e rappresentativo non più solo del mondo del lavoro dipendente ma dei lavori. Può darsi, come è stato osservato, che questa prospettiva sia il riflesso di un vuoto, di una inesistente opposizione (intesa come alternativa capacità di governo). Par di capire, piuttosto, che l’idea di un partito in grado di reclutare a sinistra e a destra debba essere sorretto da una leadership forte e star dentro una logica bipartitica e di tipo presidenzialista: uno scenario che collide con la tradizione parlamentarista delle varie anime del centrosinistra (a cominciare da quella cattolico democratica) e che, in assenza di contrappesi istituzionali, si muove su un terreno scivoloso. Insomma, pur esprimendo una geometrica vitalità indisponibile a compromessi al ribasso, il “partito del leader” interpretato in modo estremo si dipana in un chiaroscuro non convenzionale che va seguito con attenzione critica. E magari riflettendo su questo passo dello storico Giovanni Orsina comparso su “Aspenia”: «La solitudine è la cifra di Renzi più ancora di quanto non lo sia di qualsiasi altro leader politico. È solo perché non ha concorrenti e ha preso il potere nel vuoto. È solo perché si circonda di collaboratori minori di lui. Questa solitudine assoluta, che con ogni probabilità nell’immediato rappresenta la sua più grande risorsa, nel medio e lungo periodo potrebbe trasformarsi nel suo tallone d’Achille».

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