«I nuovi poveri sono gli esclusi: gli anziani, i malati, gli immigrati, i tossicodipendenti»

«Una Chiesa madre di tutti, in particolare dei più poveri e dei più deboli, una Chiesa che include e non esclude, che va in cerca e che non è statica, una Chiesa che si squilibra più nel compatire che nel giudicare. È la Chiesa di Papa Francesco, il quale attraverso le sue riforme vuole riprendere la dimensione evangelica della Chiesa». Monsignor Vincenzo Paglia, Presidente del Pontificio consiglio per la famiglia, focalizza la novità dirompente del Pontificato del Papa argentino in quella costante attenzione del Santo Padre nei confronti degli esclusi, degli emarginati, della povertà. Questa dolorosa condizione è al centro dell’ultimo lavoro del consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio, dal titolo “Storia della povertà. La rivoluzione della carità dalle radici del cristianesimo alla Chiesa di Papa Francesco” (Rizzoli 2014).
«I nuovi poveri sono i nuovi esclusi: gli anziani, i tossicodipendenti, i malati di Aids, i malati mentali, gli immigrati, perché è con l’esclusione che oggi si definisce il concetto di povertà». Monsignor Paglia, 69 anni, Presidente della Federazione Biblica cattolica internazionale, uno dei 191 Padri sinodali che hanno partecipato alla III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, ricorda che L’Instrumentum laboris, il documento di lavoro del Sinodo sulla Famiglia, parla di “una Chiesa povera e per i poveri”, la stessa Chiesa di Bergoglio, perché «il Santo Padre con il suo esempio mostra quotidianamente la forza dell’annuncio cristiano che riesce a toccare i cuori di chi non crede».
Nell’Introduzione al volume scrive che Papa Francesco “accogliendo l’utopia francescana, ha consolidato in prima persona il legame che unisce in maniera strettissima Cristo, la Chiesa e i poveri”. Desidera chiarire la sua riflessione?
«I venti secoli di storia cristiana che in Bergoglio trovano una singolare sintesi, mostrano questo indissolubile legame che unisce, già dai Vangeli, Gesù ai poveri e quindi ai discepoli per percorrere come un filo rosso, l’intera storia cristiana non solo occidentale ma ovunque essa poi si è realizzata nel mondo. Vale a dire che il legame tra Gesù e i poveri diventa costitutivo stesso della Chiesa. Quindi non è una conseguenza della fede, il legame tra Cristo e i poveri è iscritto nel contenuto stesso della fede. Vorrei dire che è iscritto nella definizione stessa di Dio e anche nella definizione stessa della Chiesa e dei discepoli di Gesù. Non è un caso, lo faceva notare nel 1967 il giovane teologo Joseph Ratzinger in un volumetto intitolato “La fraternità cristiana”, che Gesù usi il termine “fratello” “adelfos” per indicare solamente due categorie di persone: i discepoli e i poveri. Tutti identificati con lo stesso termine».
Monsignor Paglia, Papa Francesco fin dai primi passi del pontificato ha messo al centro la povertà sull’esempio di San Francesco. Considerato che otto secoli fa il Poverello d’Assisi ha introdotto nella storia dei cristiani e non solo “un rinnovamento che non cessa ancora oggi di affascinare”, possiamo considerarlo un riformatore?
«Non c’è dubbio. Lo dice Papa Francesco stesso quando spiega il perché abbia scelto il nome Francesco. Lo studio dei documenti storici mostra che ogni volta che i cristiani nel corso dei secoli hanno voluto riprendere la riforma evangelica della vita, hanno stretto ancora una volta un rapporto privilegiato con i più poveri. Quindi riformare la Chiesa, vuol dire ritrovare i poveri come compagni di viaggio. In questo senso Papa Francesco si lega strettamente al filo rosso della storia cristiana. Papa Francesco ha come accolto l’eredità del Concilio Ecumenico Vaticano II (attenzione nei confronti dei poveri e della povertà) riportandola nel cuore della Chiesa in questo tempo».
Sfogliando le pagine del saggio scopriamo che nella Chiesa dei primi secoli i poveri erano considerati i vicari di Cristo in terra, quindi i veri successori degli Apostoli, giacché carità e povertà “simul stabunt, simul cadent”, insieme staranno o insieme cadranno. Che cosa è cambiato nel frattempo?
«All’inizio del secondo millennio è cambiato il numero dei poveri. L’urbanizzazione che comportava lo spopolamento dalle campagne, i problemi della povertà che diventava “di massa” fecero cambiare la percezione dei poveri i quali divennero “pericolosi”, perché invadevano le città medievali che cominciavano a pullulare nel territorio italiano ed europeo. Quindi i poveri divennero una preoccupazione delle autorità civili, il loro volto e la loro presenza cambiò di colore, divennero appunto, “pericolosi”. In questo senso la paura spinse i cittadini a non sentirli più come vicari di Cristo. In questo contesto si spiega bene la scelta di Francesco d’Assisi, il quale di fronte a questa paura dei cittadini e al conseguente allontanamento dei poveri, il Santo invece scelse di averli come compagni di viaggio. Inoltre in quei decenni cambiò l’iconografia di Cristo, sino ad allora il Cristo delle chiese era stato quello bizantino cioè un Cristo crocefisso ma con gli abiti regali. Questo Cristo cambiò e divenne il Cristo addolorato, sanguinante. Fu la nuova iconografia ad assumere quello che i poveri erano: vicari di Cristo. Fu Cristo stesso che descriveva allora la situazione di povertà e di abbandono dei poveri».
Nel settembre del 1962, un mese prima dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, Giovanni XXIII durante un radiomessaggio disse: “In faccia ai Paesi sottosviluppati, la Chiesa si presenta qual è e quale vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente dei poveri”. Con l’apertura del Concilio i poveri tornavano nel cuore della Chiesa?
«Esattamente. Questa affermazione di Giovanni XXIII davvero profetica mostrava l’intuizione spirituale del Pontefice, il quale coglieva nella definizione di una chiesa materna il “Privilegium pauperum” che era quello stesso di Dio già nelle Scritture. Dio ama tutti partendo dai più poveri. Ecco perché Roncalli immise nell’evento conciliare un intuito spirituale che allora fu come un seme gettato che poi trovò una sua prima risposta in Paolo VI, un irrobustimento nell’America Latina e anche nella Chiesa italiana per arrivare a un’esplosione in Papa Francesco».
Parla di ruolo profetico della carità, perché?
«Perché attraverso la via dell’amore per i poveri si riscopre con maggiore efficacia l’immagine stessa di Dio. L’amore per i poveri è il modo migliore per parlare di Dio in una società come quella odierna che ha emarginato Dio ma ha anche emarginato i poveri».
Quanto è cambiato il concetto di carità rispetto al passato in un clima culturale e sociale così difficile come quello attuale? La solidarietà è in crisi?
«Direi che per un verso è cresciuta la globalizzazione del mercato ma non si è globalizzata la solidarietà che da taluni viene persino definita pericolosa per lo sviluppo. In verità la carità, la solidarietà, coglie quello che nel volume definisco “il mistero dei poveri”. I poveri sono il lembo di Dio sulla terra. Chi incontra i poveri in qualche modo intravede Dio. Tutti siamo poveri, deboli e fragili. Tutti, nessuno escluso. Quindi i poveri ci rappresentano. Non solo, in qualche modo i poveri rappresentano “l’abbassamento” stesso di Gesù che si è fatto povero per starci accanto e non lontano».
Secondo il Rapporto Istat pubblicato nel luglio 2014, il 12,6% delle famiglie italiane è risultato nel 2013 in condizione di povertà relativa (per un totale di 3 milioni 230 mila) e il 7,9% in termini assoluti. Quali politiche sociali ed economiche occorrerebbe adottare per invertire questi dati preoccupanti?
«Credo che sia indispensabile in una prospettiva nazionale e globale partire dall’attenzione ai poveri per avere uno sviluppo che sia a misura umana. Non possiamo pensare a uno sviluppo sganciato dai più poveri, perché questo porterebbe a uno squilibrio foriero di conflitti. Non credo sia una prospettiva pessimistica affermare che se cresce lo squilibrio tra ricchi e poveri il mondo stesso sarebbe travolto in conflitti difficilmente frenabili».