Commentatori autorevoli hanno fatto notare, in questi giorni, che quello che è successo a Parigi ha poco a che fare con l’immigrazione, ed è un errore, allo stesso modo, ricondurlo tout-court alla religione: è un gesto compiuto da una frangia estremista, da un manipolo di assassini, peraltro francesi, subito condannato con fermezza anche dalla comunità musulmana.
Non possiamo però ignorare gli effetti “spiccioli” di questo terremoto civile, sociale, politico, culturale. Effetti forse non ancora pienamente visibili, e in parte prodotti anche da alcune forzature mediatiche. Ogni notizia oggi, nella società della connessione globale, è come una corda che vibra e il suono arriva istantaneamente ovunque. Quello che succede nel mondo succede anche qui, si ripercuote (subito) nella vita quotidiana, nei rapporti con i vicini della porta accanto. Modifica velocemente gli equilibri.
Fra pochi giorni si celebra la Giornata mondiale del Migrante e del rifugiato, e incomincia la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani: due occasioni che hanno in comune una tensione a puntare lo sguardo sull’altro per cogliere – soprattutto – ciò che unisce. Allo stesso modo i fatti di Parigi – anche per la lettura che ne è stata data – hanno spinto a rivedere e a misurare di nuovo il rapporto con un particolare “altro”, la comunità musulmana, anch’essa in qualche modo vittima di quanto accaduto.
E qui a Bergamo a che punto siamo? Proviamo a dare un’occhiata raccontando in questo dossier alcune realtà locali, non necessariamente facili, dove si gioca concretamente, in una sfida quotidiana, l’incontro con l’altro. Storie e voci che ruotano intorno a via Quarenghi e a una zona centrale della città dove forte è la presenza di tradizioni, culture e fedi diverse.
Queste storie, queste voci, mostrano nella sostanza che – in una situazione in cui la fatica e i contrasti non mancano – il cammino da intraprendere non deve seguire la strada della paura né quella dell’emarginazione, piuttosto quella del dialogo. Conforta il successo di iniziative come quella della Fabbrica dei sogni, che da molti anni lavora per l’integrazione. Un processo lungo, un complesso e faticoso gioco di pazienza, con tante battute d’arresto, ma irrinunciabile. I giocatori sono impegnati ad aggiungere tasselli diversi, valorizzando talenti e competenze, senza emarginare, reprimere o mortificare l’altro, perché la vita conferma che la diversità è davvero – al di là dei proclami e delle frasi fatte – una ricchezza per tutti.
Si sente in questo momento così delicato ancora più forte la necessità che il cammino (comunque difficile) prosegua in un clima di trasparenza, di reciprocità, di rispetto, nei limiti segnati dalla legge; solo così, infatti, si può sgombrare il campo dai sospetti ed evitare di prestare il fianco alle accuse di chi cavalca le emozioni del momento, facendo leva sulla paura per creare nuove divisioni, nuovi muri. Non è accettabile – per esempio, dato l’acceso dibattito in corso – che i luoghi di preghiera siano “abusivi”.
Partiamo da ciò che è stato detto dai mezzi di comunicazione tradizionali e che è rimbalzato nell’amplificatore dei social network, anche nella nostra città. Si è acceso un vivace dibattito, talvolta eccessivo sia nei toni sia nei contenuti, sulla presenza islamica sul territorio e per estensione su quella degli immigrati. Titoli di prima pagina come «Questo è l’Islam» (Libero) «Li abbiamo in casa», «Macellai islamici» (Il Giornale) e simili intendevano far leva proprio sulla paura e l’insicurezza delle persone, esasperandoli.
A livello locale il dibattito ha finito per coinvolgere anche la legittimità o meno dei luoghi di culto per i musulmani sul territorio cittadino (moschea sì, moschea no, anche se il sindaco di Bergamo Giorgio Gori ha detto, mettendo un punto, che «tutti devono avere un luogo dignitoso in cui pregare, noi andremo avanti»), cedendo talvolta a generalizzazioni semplicistiche.
Sul fronte opposto c’è stato un ricompattamento che ha avuto il suo momento più alto nella marcia di domenica scorsa a Parigi, con oltre due milioni di persone in piazza. La marcia ha offerto, per un pomeriggio, lo scorcio di un futuro ideale: uomini e donne diversi per età, fede, idee politiche ma uniti dal desiderio di costruire una cultura di pace, in cui libertà, tolleranza, accoglienza e dialogo – pur nella diversità – sono condizioni imprescindibili.
Un momento in cui si è presentata l’immagine inedita di un’Europa di nuovo giovane e fiera di sé, così diversa da quella fiacca a cui siamo abituati, afflitta dalla crisi politica ed economica, incapace di reazione e di prospettiva. Come se lo scossone dell’attentato, con la sua potente carica simbolica, le avesse cancellato di botto le rughe dal volto e raddrizzato magicamente la schiena. Si è animato anche un dibattito più alto, più profondo, su che cosa sia la libertà, su quanto sia costato conquistarla, e che cosa significhi concretamente praticarla e difenderla.
Anche a Bergamo la piazza si è riempita per #stareinsieme, e c’erano tanti cartelli che dicevano #jesuischarlie, con le matite alzate. Sono risuonate frasi come «Dove l’odio divide, i diritti possono unire» e ancora «L’amore vince sempre sull’odio» e «L’unica guerra di civiltà possibile è tra chi ammazza e chi no».
Eppure fatica a diffondersi la consapevolezza che da un lato la paura e dall’altro l’emarginazione, il rifiuto e la solitudine sono ostacoli fortissimi al dialogo. E poi: negare lo spazio ad alcuni servirà davvero a rafforzare l’identità di altri? Molti sembrano ancora convinti che la strada da seguire sia questa. Ma noi stiamo con il Papa quando dice che la cultura dell’incontro è la vera arma della pace: «Il rifiuto dell’altro finisce per disgregare la società generando violenza e morte. All’origine c’è quella cultura dello scarto che non risparmia niente e nessuno: dalle creature agli esseri umani, e perfino Dio stesso». Una cultura, sottolinea il Papa, prodotta «da una mentalità che pone al centro il denaro e i benefici economici a scapito dell’uomo stesso». Da questa cultura – dice Francesco – nasce un’umanità ferita e continuamente lacerata da tensioni e conflitti di ogni sorta. E conclude con l’accorato appello (che facciamo nostro) a opporle una cultura dell’incontro «che genera il dialogo e opera per il bene». Di tutti.