Sanremo, un festival di “buoni”. In tempi di crisi ci offre la nostalgia come un’ancora

«Il boom d’ascolti del 65° Festival della Canzone Italiana credo sia dovuto in parte alla crisi che stiamo vivendo. Al gran desiderio di tutta la gente, il pubblico, di rilassarsi, di godere un po’ maliziosamente della “guerra degli altri”, e cioè la gara che lascia sul terreno i gladiatori sconfitti e cioè i cantanti eliminati. E in parte credo che il successo sia proprio dovuto anche alla formula “tranquilla”, un po’ ministeriale, scelta da Carlo Conti, gran maestro di cerimonia. Senza sorprese, soprattutto cattive. È un festival di “buoni”, e, in un’epoca di grandi inquietudini come la nostra, non è poco… una trasmissione serena, pulita in un momento storico in cui tutto è confuso e lacerato. Il successo di Carlo Conti sta tutto qui, il presentatore rappresenta la normalità, quindi il Festival di Sanremo 2015, che si chiude stasera, è una scommessa vinta». Carla Vistarini, paroliera e musicista, ha seguito finora tutte le serate sanremesi con uno sguardo particolare, non solo come spettatrice attenta ma anche come addetta ai lavori. «Sanremo è un palcoscenico che conosco molto bene» precisa Carla, romana, autrice televisiva, teatrale e cinematografica, la quale ci offre un’interessante riflessione socio-antropologica, perché “non sono solo canzonette”. C’è chi ha definito la manifestazione canora come “Gran Festival Nostalgia” per la presenza di Albano e Romina, degli Spandau Ballet, una sorta di “i migliori anni” ma è «la Nostalgia in quanto tale, e cioè il desiderio di un qualcosa che non c’è più e che abbiamo amato molto, ha un cuore indistruttibile, che nessuno può portarci via. È un’ancora cui possiamo aggrapparci mentre la società nella quale siamo immersi non offre appigli di alcun genere. Romina e Albano rappresentano la felicità creduta, perduta e ritrovata, l’idea che si possa avere un’altra possibilità e coglierla al volo. Conosco entrambi da moltissimo tempo, e sono due persone speciali».

Secondo i critici musicali l’ondata melodica proveniente dal 65° Festival della Canzone Italiana è all’insegna del più scontato sentimentalismo. È d’accordo? 

«Personalmente adoro il sentimentalismo e credo che alle canzoni non debba chiedersi di essere trattati politici o sociologici, messaggi morali o moralistici. Mi faccio aiutare da Proust, che la pensava come me quando diceva: “Non disprezzate la musica popolare, a poco a poco essa si è riempita del sogno e delle lacrime degli uomini. Rispettatela. Il suo posto è immenso nella storia sentimentale della società, perché ha ricevuto il tesoro di migliaia di anime”. E anche Orwell, in “1984”, riserva alle canzoni popolari il grande merito di coltivare la speranza, tenue consolazione di una società oppressa e ideologizzata come quella che racconta nel suo splendido romanzo. Quindi viva il sentimentalismo e le semplici poesie delle canzoni».

C’è qualcosa di misterioso nel fascino che scatena la kermesse nazionalpopolare nel nostro Paese, uno dei pochi punti fermi della nostra incerta società? 

«Proprio perché la nostra è una società incerta, immatura e in regressione culturale, ahimè, credo che ogni evento o fatto molto “strutturato”, che lo sia ideologicamente o di fatto, susciti un fascino che rasenta l’idolatria. Si ammira ciò che è, in quanto tale e acriticamente, proprio perché tutto intorno a quello che vediamo, a cominciare da noi stessi, è liquido, informe: “Vorrebbe essere” ma non ci riesce. Il Festival di Sanremo è solido come l’elezione del Presidente della Repubblica, o la finale con l’Italia al Mondiale di calcio, o l’elezione di un nuovo Papa. Qualcosa di fronte al quale ci si ferma. Qualcosa di mistico».

“Sarà un Festival pop e divertente”, parola di Carlo Conti, un passato di disc jockey, presentatore e direttore artistico della manifestazione canora. Ha mantenuto la promessa?

«Devo dire che all’inizio, durante la prima serata, l’impressione, più che di un festival “pop”, fosse quella di un Festival “Minculpop”. Un po’ ministeriale e di propaganda. La famiglia Anania, Fabrizio Pulvirenti il medico guarito dall’Ebola, queste cose sapevano molto di un buonismo acritico e fuori posto su un palcoscenico musicale. Poi per fortuna la musica e comunque lo spettacolo hanno avuto la meglio. Direi che nell’insieme è un Sanremo dal sapore pop “d’ufficio”. In questo ha una sua coerenza e non è poco».

“Un Sanremo formato famiglia” ha scritto Natalia Aspesi su Repubblica. È d’accordo?

«Formato famiglia sì, ma una “famiglia anni ’50”. Sembra tutto disegnato, troppo definito e “pulito”, vagamente iperrealista. Tutto è nitidamente incasellato in uno spazio proprio, che non contamina il resto. Sembra un mosaico: le canzoni, gli ospiti, le pubblicità, ogni tassello è contiguo all’altro ma non lo tocca, circoscritto da una zona neutra. Anche questo è uno stile, molto formale e un po’ “antico”, e può darsi che sia addirittura la ragione del successo. E quindi bravo Carlo Conti, vero vincitore assoluto».

Finora qual è stata la canzone che più l’ha colpita?

«Quella che mi ha intenerito di più è stata “Io sono una finestra” cantata da Grazia di Michele e da Mauro Coruzzi (Platinette). Poi mi è piaciuto Raf, pieno di cuore con stile, anche se con qualche incertezza d’intonatura, come molti altri del resto, l’emozione gioca brutti scherzi. Promuovo anche Alex Britti, il Volo e Mauro Masini. Fra le donne Malika Ayane è innegabilmente brava ma qualcosa non mi ha convinto fino in fondo. Nina Zilli grande presenza scenica, il pezzo prometteva bene ma si è un po’ perso. Dei giovani mi sono piaciuti i Kutso. Energetici, simpatici, originali».

Ha scritto canzoni indimenticabili per cantanti quali Ornella Vanoni (La voglia di sognare), Mina (Buonanotte buonanotte), Riccardo Fogli (Mondo), Mia Martini (La nevicata del ’56), Renato Zero, Amedeo Minghi, ecc. Quanto è cambiato oggi il modo di fare musica in Italia?

«È cambiato moltissimo. Da una parte c’è una crisi enorme del mercato discografico che si sta riposizionando su altre basi, quelle digitali, con contraccolpi giganteschi e drammatici. I dischi non esistono in pratica più, sono oggetti da museo. La musica oggi è un pacchetto di dati che viaggia nell’etere e sul web, difficile da gestire, da controllare, da commercializzare in maniera vantaggiosa. Inoltre chiunque abbia un computer a casa, quindi in sostanza tutti, può pensare di poter fare musica. Questo determina un accesso indiscriminato di folle di persone che si sentono autorizzate a sperare di far parte del mondo musicale anche senza averne i requisiti minimi. È un quadro abbastanza caotico».

Che cosa pensa del fatto che molti giovani in gara provengono dai cosiddetti talent show?

«Penso che oggi i talent siano una delle poche occasioni di confronto che i giovani hanno a disposizione per misurarsi con gli altri e per capire se davvero quella è la loro strada. Qualcuno li demonizza, io no. Nell’assenza di alternative di visibilità, di incontro artistico con altri giovani, ben vengano i talent. È un brodo di coltura, dove puoi fondere un po’ di accademia di arte drammatica, un po’ di conservatorio, un po’ di scuola di ballo. E si può venire a contatto con professionisti e artisti importanti. È una possibilità».

Giovedì serata “Cover” durante la quale i venti cantanti in gara hanno gareggiato con alcuni classici della canzone nazionale. In questo viaggio nel passato quale canzone l’ha più emozionata? 

«Mi sono piaciuti i Dear Jack che hanno riproposto la splendida “Io che non vivo”, poi Nek, che ha scelto la canzone più giusta per quel contesto, “Se telefonando” e infatti ha vinto. Mi è parso invece poco coerente scegliere canzoni che non solo non erano nate sul palco di Sanremo ma che addirittura non erano canzoni “italiane”, come “Se perdo te” o “Una città per cantare”, entrambi pezzi americani, all’origine».

Una veloce parola di commento sulle “vallette” Emma Marrone e Arisa, due cantanti già vincitrici del Festival, le quali per la prima volta si sono cimentate in questo ruolo a volte scomodo e difficile. 

«Ho apprezzato molto la simpatia e la spontaneità di Emma Marrone. Certo dovrebbe migliorare la sua dizione e riservare il suo spiccato accento solo alle battute divertenti. Vedremo se sarà così brava da applicarsi in questo. Per quanto riguarda Arisa, non so, è un personaggio che devo ancora capire fino in fondo. Mi pare che comunichi una sorta di eccesso di sicurezza, self-confidence direbbero gli inglesi, che mi pare non coincida ancora con la sostanza della sua personalità. In altre parole, la strada per l’eccellenza è lunga e disseminata di ostacoli».

Lo slogan del Festival è “Tutti cantano Sanremo”. Quest’anno il giorno dopo la finalissima di stasera sera quanti tassisti “canticchieranno” le tre canzoni vincitrici? 

«Purtroppo credo proprio pochi. Spero di sbagliarmi e di essere smentita dai fatti, ma mi pare che quello che manca alle canzoni in gara quest’anno sia proprio l’orecchiabilità. C’è come un desiderio diffuso, in chi ha scritto i brani, di essere “originali” a tutti i costi, di arzigogolare. E quando tutti voglio essere originali, alla fine poi, non lo è nessuno. La gente infatti ha tirato il fiato quando ha sentito i vecchi successi».

Desidera ricordarci la Sua esperienza personale con il Festival?

«Sanremo ed io siamo stati un’anima sola… sono stata nel corso degli anni in gara con le canzoni come autrice per esempio quando ho partecipato con “La nevicata del ’56” cantata da Mia Martini, Premio della critica. Esordii a Sanremo come autrice nel 1974 con una canzone di Riccardo Fogli, “Complici”, la prima che il cantante presentò dopo aver lasciato i Pooh. Sono stata selezionatrice di canzoni per Sanremo tre o quattro volte, ricordo che facemmo passare Giorgia, Patty Pravo con “E dimmi che non vuoi morire, Giorgio Faletti con “Signor Tenente”. Sono stata commissario artistico, un triumvirato composto da Giorgio Moroder, Premio Oscar, Pino Donaggio e la sottoscritta, per il Festival di Sanremo del 1997».

Se ho paura prendimi per mano (Corbaccio 2014) è il Suo primo romanzo, protagonisti Smilzo, un barbone dal volto intelligente e spavaldo e una bambina di tre anni. Ce ne vuole parlare?

«Se ho paura prendimi per mano è una storia che vi commuoverà e vi farà sorridere. È un giallo, ma anche una commedia, che racconta, attraverso le vicissitudini di un barbone e di una bambina inseguiti da una banda di criminali per motivi abietti, come la salvezza e il riscatto personali siano sempre possibili. Prendersi per mano vuol dire aiutarsi, esserci, comprendersi. Ai lettori dico: se vi fidate di chi ha scritto “La Nevicata del ’56”, e “La Voglia di Sognare”, e tante altre canzoni che tanti italiani cantano con affetto e tengono nel cuore per ricordare i momenti più belli della vita, allora leggete questo romanzo. Se ho paura Prendimi per mano vi aspetta in libreria. Vi appassionerà e vi resterà nel cuore».