«La crisi uccide il ceto medio? No. Ci sono segnali di ripresa»

La crisi, dice un recente rapporto del Censis, non sta davvero uccidendo il ceto medio. «Nonostante le asprezze della crisi – dice Francesco Maietta, Responsabile Politiche Sociali dell’istituto di ricerca – e l’evidente dinamica centripeta che essa ha innescato, persiste e si rilancia nel nostro Paese una voglia di essere ceto medio. Ed è anche naturale che sia così, perché è scritto nel Dna della società italiana e in fondo nella vita delle singole famiglie. La grande maggioranza degli italiani ha una storia familiare che parla di corsa al benessere, di passaggio da una dimensione contadina, e spesso di povertà, a una urbana, di progressivo benessere, con alti livelli di consumo. La crisi ha invece evidenziato che è diventato possibile passare direttamente dal benessere al disagio per un semplice evento della vita, come la perdita del lavoro o una legge sulle pensioni che ci inchioda a una condizione indefinita come quella dell’esodato. Tuttavia, nella resistenza alla crisi e nella voglia di superarla, c’è proprio quell’aspirazione a essere ceto medio, a identificarsi con una condizione positiva che comprende alcuni elementi fondamentali: qualche soldo da parte per ogni evenienza, la casa di proprietà, un’automobile possibilmente utilitaria, aiutare i figli con la casa lasciandogliela in eredità o aiutandoli con il mutuo o dandogli i soldi per l’anticipo. Io sono ceto medio è, quindi, il modo in cui gli italiani ricominciano a pensare oltre la crisi». Maietta nel decimo numero del “Diario della transizione”, ricerca del Censis da lui curata, ha rilevato che dopo sette anni di crisi economica, il 54 per cento degli italiani si sente ceto medio, il 18 classe lavoratrice e il 16 ceto popolare. In questa intervista Maietta spiega il motivo per il quale la middle class nel nostro Paese vince ancora come mentalità e come modello di vita.
Un anno fa Ilvo Diamanti su Repubblica illustrava la fine del ceto medio in Italia, “la piccola borghesia si sente povera” e come la crisi avesse fatto inceppare l’ascensore sociale. Il risultato di un sondaggio DemosFond aveva stabilito che solo il 41 per cento degli italiani si sentiva ceto medio, contro il 59,5 del 2007. Un processo socioeconomico e antropologico che ha invertito la rotta. In un anno che cosa è avvenuto?
«Che il protrarsi della crisi, tanto per essere cauti quanto si deve, forse dà qualche segnale di essere in dirittura d’arrivo. Si colgono segnali che progressivamente la notte sta passando. E tra i segnali c’è anche la voglia che hanno gruppi sociali diversi di uscire da quell’arroccamento in trincea che ha caratterizzato gli ultimi anni, quell’istinto alla sopravvivenza con il quale si finiva per delimitare il livello di tenuta senza però dare alcun segnale di ripartenza. Sentirsi ceto medio piuttosto che poveri non vuol dire che non siamo più vulnerabili, ma che siamo di nuovo consapevoli che ce la possiamo fare a tornare a crescere».
Chi sono i protagonisti di questa nuova middle class, ci sono anche i millennials (giovani 18-34 anni)? Ci può fornire qualche dato?
«Sì, anche se i giovani sono quelli che maggiormente hanno subito la crisi dopo che, tramite la flessibilizzazione del mercato del lavoro, avevano già dato molto in termini di precarietà dei percorsi lavorativi e di vita. Nella crisi ci sono soglie di accesso al ceto medio che si sono abbassate, rendendo più agevole il kick off di singole attività. Colpisce, ad esempio, che in un momento veramente buio per il commercio e per gli esercizi pubblici, la filiera della ristorazione segni valori positivi. C’è tanto street food, take away, o più italianamente, pizzerie al taglio, dentro queste nuove opportunità di fare reddito. Sentirsi ceto medio non vuol dire essere qui e ora ricchi e benestanti, significa che hai davanti a te un percorso di crescita in cui credi, che è praticabile, fattibile. Se hai una start up sul web e fai commercio online di prodotti made in Italy, magari ti sei indebitato per avviare l’attività, ma senti che nei prossimi anni se ti muovi bene puoi fare fatturato, reddito, insomma puoi crearti il tuo benessere. E i giovani, e anche le donne imprenditrici, sono tra i protagonisti di questa nuova middle class».
Non più consumismo e più acquisti consapevoli in un Paese dove la parola d’ordine è sobrietà. Cosa ne pensa?
«Sì, anche questo è un effetto della crisi destinato a rimanere e forse non è così male. Dal miracolo economico in avanti ha prevalso l’idea che “di più” è sempre e comunque meglio e questo soprattutto nei consumi. Aumentare i livelli di consumo è stato il modo attraverso il quale ci siamo affrancati da secoli di povertà e, più ancora, dall’idea dell’essere poveri. Mangio tanto e bene, ho ogni tipo di beni in casa, posso avere qualsiasi tipo di servizio, e tutto secondo una logica scalare. Questa dinamica quantitativa, di eccesso, si è protratta almeno fino all’arrivo degli smartphone. Poi con la crisi e il taglio dei redditi è partito un processo diverso che prima era proprio di piccoli gruppi sociali: la sobrietà – cioè non sempre “di più” è comunque meglio. Gli italiani hanno imparato a gestire meglio il proprio reddito: da una parte, corrono a cercare prezzi buoni, promozioni e low cost, dall’altra, non rinunciano a mettere qualche euro di più sulle cose che gli interessano, a togliersi qualche sfizio. La sobrietà è un rapporto non più compulsivo coi consumi ed è al contempo una tendenza a tenere insieme low cost e trading up: faccio acquisti all’hard discount ma poi mi compro il profumo di alta qualità, viaggio Ryanair e poi nella località di vacanza vado a mangiare in un ristorante di lusso… ».
“Il mattone” resta l’investimento migliore?
«Se si tengono i soldi fermi sì, perché il ciclo lungo premia inevitabilmente il mattone. Certo, chi ha acquistato fino a tre-quattro anni fa, oggi deve stare fermo o perde di brutto. Essere ceto medio però vuol dire comunque avere un buon rapporto con il mattone e pensare che in fondo per aiutare i figli il modo migliore è quello di aiutarli a comprarsi casa. Il famoso tetto sopra la testa è ancora per gli italiani il modo migliore per costruire autotutela. Forse non sarà l’investimento migliore in una logica di valutazione di portafoglio rendimenti/rischi, ma lo è dal punto di vista della percezione sociale della sicurezza e della costruzione di essa nel lungo periodo».
Aumenta la voglia di rifare patrimonio in banca. Ciò com’è visto, strategia di crescita o simbolo di un futuro ancora precario?
«Tenere i soldi fermi è oggi il mood prevalente degli italiani. Se sono solo e fragile nella crisi, allora ogni euro che risparmio me lo tengo a portata di mano, perché non si sa mai… Contanti, depositi bancari, polizze assicurative sono le voci in crescita rispetto al precrisi. È sicuramente un fenomeno di difesa, e tuttavia la disponibilità di risorse è tale che potrebbe essere un tassello significativo di una nuova fase di crescita, soprattutto lungo il circuito nonni-genitori-figli. Se i Millennials puntano sulle soglie basse di accesso creando start up innovative sul web e miscelando prodotti e servizi tradizionali con nuove opportunità dell’ict (N.d.R.: Information and Communication Technology, tecnologia dell’informazione e comunicazione), allora i soldi in banca delle famiglie potrebbero ricominciare a correre e diventare capitale, cioè il punto di partenza di nuovo sviluppo diffuso, dal basso, come nella migliore tradizione degli italiani».
È vero che nell’Italia stremata da una crisi prolungata le soglie d’ingresso, per la middle class sono diventate particolarmente basse?
«La crisi ha abbassato le soglie di accesso a sentieri di costruzione di una condizione socioeconomica da middle-class. È un dato di fatto che ci viene dalla caduta della locazione dei negozi in molti quartieri e strade anche molto commerciali. In parecchie grandi città molte strade si vanno rivitalizzando grazie ai migranti che aprono le botteghe di frutta e verdura o negozi che ricalcano il vecchio modello di alimentari, che era stato schiantato dai supermercati. Giovani, migranti e donne stanno già entrando dalle barriere abbassate. Forse la cosa migliore sarebbe aiutarli, con la fiscalità amica, con strumenti di tutela che gli diano quella sensazione di avere le spalle coperte che è stata alla base del miracolo economico italiano e della microimprenditorialità di massa nel passato anche recente».
Quali sono i maggiori segnali che fanno capire che “questa forse è la volta buona che si uscirà dalla crisi”?
«Che le imprese muoiono meno, in alcuni settori c’è vitalità; che ci sono soggetti sociali che incarnano questa vitalità; che le esportazioni in alcuni settori sono molto forti, dalla filiera del cibo alla meccanica fine (siamo bravi a fare macchine, anche macchine per fare macchine…); che i giovani italiani che fanno esperienza all’estero tornano in Italia, magari in aree depresse, e hanno la forza di avviare progetti imprenditoriali interessanti; che in tanti mostrano di sapere intrecciare le tradizioni e tipicità italiane e l’Ict e il web; che siamo il Paese della biodiversità e delle tipicità territoriali laddove nelle punte più avanzate della globalizzazione (da New York a Pechino a Londra e Parigi…) vogliono tracciabilità dei prodotti e quindi una tipicità riconoscibile, di cui si può conoscere la biografia. Nell’anno dell’Expo noi possiamo imporci come il Paese della qualità, dell’estetica, dell’orgoglio di saper fare le cose bene… credo siano segnali e opportunità importanti».
Lei rileva che “le incolmabili disuguaglianze sociali” sono il vero nemico del ceto medio, perché?
«Ecco il rovescio della medaglia: in passato eravamo un Paese in cui tante famiglie crescevano economicamente e le disuguaglianze si riducevano; nella crisi è invece emerso che tante famiglie scendono di reddito e benessere e le disuguaglianze aumentano. Infatti, come in un gioco perverso, chi meno ha più ha perso e viceversa… Questa è la dinamica opposta a quella della “cetomedizzazione”. Così la società si differenzia, mentre è importante innescare dinamiche centripete, rendendo evidente che si può diventare benestanti e anche ricchi se si ha un progetto imprenditoriale o professionale che incontra il successo di mercato, ma che nel complesso siamo una società coesa, dove il senso di appartenenza è fatto di un mix di opportunità di crescita. Differenze che non devono diventare distanze altrimenti è alto il rischio che diventino fratture. Per questo le politiche pubbliche, dalla fiscalità alla sanità, devono mettere al centro la lotta alle disuguaglianze, perché è ciò che più corrode il nostro stare insieme. Noi non abbiamo, ancora, l’“etnodisagio” francese o londinese, ma è importante evitare la cristallizzazione di disuguaglianze marcate e, soprattutto, la loro tendenza ad ampliarsi nel tempo. Perché nessuno si senta escluso e perché ci sia possibilità di diventare middle class è importante che il reddito e la ricchezza non prendano sempre la strada di chi già ne ha in abbondanza».