L’alfabeto di Papa Francesco: T come Trasparenza. Anche negli affari

«L’alfabeto di Papa Francesco non poteva che cominciare con la A di Affari, perché spesso il Santo Padre ha puntato il dito contro la commistione tra religione e affari.  Trasparenza è una delle parole d’ordine di Francesco. Ha capito che ne va della credibilità stessa della Chiesa. Anche di recente ha tuonato contro i mercanti nel tempio e ha chiesto una profonda conversione all’insegna della pulizia. Su questi aspetti è intransigente. Il nuovo dicastero per l’economia, da lui fortemente voluto, avrà funzioni di controllo e di coordinamento proprio perché non si ripetano certi fatti del passato. Sulla stessa linea è la decisione di mettere fine al segreto bancario e di aprire una nuova fase di collaborazione con le autorità italiane. Una battaglia non facile, perché ci sono resistenze legate a svariati interessi». Aldo Maria Valli, vaticanista del Tg1, ha scritto L’alfabeto di Papa Francesco. Parole e gesti di un pontificato (Ancora Editrice 2015), nel quale il giornalista e saggista stila dalla A di Affari passando per la N di Ninnananna fino alla Zeta di Zucchetto un interessante alfabeto dedicato alle parole, alle riflessioni e ai significativi gesti di un Papa straordinario, il cui pontificato sta dando il segnale di un profondo cambiamento all’interno delle Mura Leonine. «Francesco è un Papa che parla con i gesti prima ancora che con le parole. Si lascia avvicinare e va incontro a tutti, abbraccia e conforta, e lo fa con la spontaneità di un cuore caldo, latino. Ormai, come in occasione delle udienze generali del mercoledì, dedica più tempo a questo contatto diretto, al dialogo fatto di gesti, che alla catechesi pronunciata dal sagrato di piazza San Pietro. Le persone lo sentono vicino e tutti avvertono il suo spirito di misericordia. Quando fa il giro tra la folla, a volte fa fermare la jeep bianca e scende per dare una carezza e un bacio, oppure fa salire qualcuno. Queste immagini restano impresse nel cuore di tutti e forse valgono più di un’enciclica sull’accoglienza», puntualizza Valli, volto familiare della rete ammiraglia della Rai, nato a Rho il 3 febbraio 1958, autore di numerosi libri che si occupano di religione, famiglia e mass media.

B come Borsa. La semplice borsa nera, che Bergoglio porta con sé durante i viaggi apostolici, è un altro tratto distintivo dello stile Francesco?

«Sì, è un segno visibile del suo stile semplice. Dentro, come ha spiegato lui stesso, ha il rasoio, qualche libro e il breviario. Francesco è Papa ma non per questo vuole smettere di essere un buon prete, semplice e genuino. Inoltre, come mi hanno riferito i suoi più stretti collaboratori, non sopporta la piaggeria e il servilismo: ecco perché non vuole avere attorno troppi aiutanti, servitori e portaborse».

C come Chiesa “aperta, umile, missionaria, mai autoreferenziale, per questo mi chiamo Francesco: come Francesco da Assisi, uomo di povertà, uomo di pace”. Che cosa ne pensa?

«Il debito verso Francesco d’Assisi è chiaro. Bergoglio lo ha messo in evidenza fin dai primi giorni del pontificato. San Francesco fu un grande riformatore, ma lo fu in quanto uomo del Vangelo, perché chi mette al centro Gesù e la sua buona notizia è sempre, automaticamente, un riformatore della Chiesa. Papa Francesco sta facendo proprio questo: rimettere al centro Gesù e il suo Vangelo. Di qui la richiesta di una Chiesa povera e per i poveri, una Chiesa in uscita e mai autoreferenziale. Ma importante è anche il debito nei confronti di don Bosco e dei salesiani, che gli hanno insegnato il realismo e la passione per l’educazione dei giovani».

C anche come Croce, e quella del Papa è “tutta un programma”, perché?

«Intanto perché non è d’oro scintillante ma d’argento, e poi perché mostra il buon pastore circondato dal gregge, e con la pecorella smarrita sulle spalle. Francesco ha detto e ripetuto che il prete e il vescovo devono portare addosso l’odore delle pecore: devono mischiarsi al gregge, non possono vivere in una torre d’avorio, in una dimensione tutta loro, isolata dai problemi delle persone. La sua croce pettorale quindi non è quella di un sovrano ma di un umile pastore».

D come Domus Sanctae Marthae dove vive il Pontefice e non nel Palazzo apostolico. Qual è il motivo di questa scelta?

«Lo ha spiegato lui stesso, in modo scherzoso ma efficace, quando ha detto che ci sono “ragioni psichiatriche”. Lui non può vivere isolato, lontano dalla vita delle persone con cui collabora. Ha rifiutato l’appartamento papale non tanto perché sia grande e sfarzoso ma perché lo ha visto come una specie d’imbuto, con un ingresso troppo piccolo. Francesco ha bisogno del contatto umano, e così è nata la scelta di restare a Santa Marta, dove vive in un piccolo studio e in una piccola camera. Ho avuto modo di incontrarlo lì e di parlare con le persone che lavorano a Santa Marta. Se si pensa a quanto fosse difficile un tempo entrare in contatto con il Papa, è stupefacente vedere come Francesco si lascia avvicinare e cerchi di condurre, per quanto possibile, una vita normale. Faceva così anche da cardinale arcivescovo di Buenos Aires: è la tipica sobrietà dei gesuiti. Stare a Santa Marta poi gli consente di celebrare ogni mattina messe aperte al pubblico (nel primo anno i dipendenti vaticani, nel secondo le parrocchie di Roma), da dove manda messaggi importanti, sempre a partire dalla pagina evangelica del giorno. In questo modo Francesco sta dando una profonda impronta pastorale al suo pontificato». 

D anche come Donna. Oggi, domenica 8 marzo, il Papa all’Angelus ha appena detto che “un mondo in cui le donne sono emarginate è più sterile”. «Sì, poiché la Chiesa è madre, al suo interno il ruolo della donna è da valorizzare. Ecco perché il Papa soffre quando vede che il servizio della donna è ridotto a schiavitù. Tante cose possono cambiare nella storia e nella cultura, ma resta un fatto: è la donna che concepisce, porta in grembo e mette alla luce i figli degli uomini. Chiamando la donna a essere madre, Dio le ha affidato un ruolo unico».

O come Ospedale, perché la Chiesa è come un “ospedale da campo dopo una battaglia”, quindi “Chiesa missionaria” che deve andare verso le “periferie dal mondo”. È stato per questo motivo che la prima missione apostolica del Pontefice è stata a Lampedusa?

«Certamente. Ha scelto di andare in periferia, là dove ci sono più sofferenza e abbandono. Si è chiesto se siamo ancora capaci di piangere per il fratello. La scelta di Lampedusa ha fatto capire ancora meglio chi è Francesco e che cosa chiede alla Chiesa e al mondo. Stesso discorso per la visita in Sardegna, dove ha preso parte al dramma delle persone rimaste senza lavoro. Incessante è la sua denuncia di un mondo che, sottomesso all’idolatria del denaro, produce una cultura dello scarto e mette ai margini i più deboli. Questa è la sua visione. Ecco perché privilegia le periferie, sia esistenziali sia geografiche. Ci sta aiutando a decentrarci, ad avere uno sguardo diverso, più solidale, sulla complessa realtà del nostro tempo».

P come Pugno… quello metaforico del Papa in pochi secondi ha fatto il giro del mondo. Che cosa desiderava dire il Santo Padre mentre si trovava sull’aereo in volo dallo Sri Lanka alle Filippine il 15 gennaio scorso?

«Desiderava far capire che la libertà di espressione non può essere senza limiti. C’è un limite che riguarda l’offesa che può essere arrecata a quanto di più profondo e prezioso c’è nel sentimento delle persone. Di qui l’immagine del pugno che può ragionevolmente aspettarsi chi offende la mamma. In questo caso Francesco ha parlato “alla Francesco”, con il suo tipico linguaggio diretto e colorito. È stato efficace. Ha fatto capire che c’è una differenza tra satira intelligente e insulto. L’insulto alla religione non è accettabile. Non ci può essere giornalismo senza deontologia, anche se è giornalismo satirico».

R come Rugby. È questo lo sport preferito da Bergoglio?

«No, il suo sport preferito resta il calcio. È un tifoso del San Lorenzo de Almagro, la squadra della sua gioventù, nata in ambiente salesiano. Di quella società aveva perfino la tessera, perché andava spesso a vedere le partite. E ora il nuovo stadio del San Lorenzo porterà proprio il suo nome: si chiamerà Estadio Papa Francisco. Da buon argentino, tuttavia, Bergoglio conosce bene anche il rugby e sa che è un gioco duro, nel quale sono richieste molta disciplina e molta abnegazione al servizio della causa comune. Per questo gli piace e trova che l’immagine della palla da portare in meta sia una metafora della vita, perché tutta la nostra vita tende alla meta del regno di Dio. È una ricerca spesso faticosa, ma l’importante è non correre da soli».

S come Scarpe. Che tipo di scarpe indossa Papa Francesco?

«Indossa semplici scarpe nere ortopediche, realizzate per lui dal suo amico Carlos Samaria, calzolaio a Buenos Aires. Sono scarpe che “parlano”: prive di decorazioni, lisce, non sono belle ma molto comode. Sono le scarpe di un prete di strada, che le consuma per andare incontro alle persone, anche nei luoghi più disagiati. Francesco non ha voluto le scarpette rosse tipiche dei pontefici: non fanno proprio per lui, per la sua idea di Chiesa e di prete. Inoltre, fin dal primo giorno di pontificato ha messo in chiaro che le scarpe se le vuole lucidare da solo. Ha detto: Non smetterò di farlo solo perché sono diventato Papa!».

S come Sale perché il cristiano è chiamato a essere sale della terra. Chi è “il cristiano da museo”?

«Quella del sale è immagine tipicamente evangelica. Il cristiano è chiamato a essere luce del mondo e sale della terra ma se non trasmette il sale del Vangelo diventa insipido, cioè inutile, come un cristiano da museo, intento a conservare un patrimonio ma incapace di trasmetterlo. In altre occasioni Francesco ha parlato di cristiani “da pasticceria”, che discettano dei problemi bevendo il tè, ma senza sporcarsi le mani con i problemi del mondo e le sofferenze dei poveri».

Z come Zitelle. “Per favore, non siate zitelle e zitelli”. In quale situazione il Papa ha pronunciato questa simpatica frase?

«L’ha pronunciata parlando ai novizi e alle novizie nel luglio del 2013, in Vaticano. Ha detto loro che il voto di castità e la scelta del celibato non devono tradursi in una sorta di impoverimento interiore: anzi, bisogna diventare ancora più bravi nell’amare, nel coltivare il senso di paternità e di maternità nel modo più alto. Un prete e una suora “non fecondi”, nel senso di incapaci di amare, sono un controsenso. L’immagine delle zitelle e degli zitelli è servita a Francesco per mettere in guardia da un certo modo malinconico e sterile di vivere la consacrazione e la missione che ne deriva».

Nel libro c’è spazio anche per qualche originalità di Papa Francesco. Ce ne descrive qualcuna?

«Mi piacciono molto i cosiddetti “bergoglismi”, ovvero i neologismi che Francesco inventa a ripetizione. È il caso di “giocattolizzare”, “mafiarsi”, “martalismo”, “nostalgiare”. Un po’ perché l’italiano non è la sua prima lingua, un po’ perché sente il bisogno di forzarla per darle una maggiore espressività, Francesco ha un rapporto molto libero con la parola. “Giocattolizzare”, per esempio, l’ha usato per dire che con le religioni non si può scherzare troppo, non le si può ridurre a giocattoli. “Mafiarsi” per dire che i poveri devono essere rispettati nei loro diritti senza che da parte loro ci sia la necessità di legarsi a qualche tipo di mafia. Il “martalismo” viene da Marta ed è uno dei mali della curia romana: la malattia di chi punta tutto sulla propria operosità, dimenticando di sedersi accanto a Gesù e di ascoltarlo. Il “nostalgiare” è l’atteggiamento di chi prova nostalgia dell’essere schiavi, perché preferisce un rassicurante stato di dipendenza alla libertà di rischiare in prima persona, in nome del Vangelo. Estremamente efficaci sono alcune parole prelevate dallo slang di Buenos Aires: come “balconear”, che significa stare al balcone a osservare, senza scendere in campo, senza prendere parte attiva alle vicende della vita, e come “primerear”, verbo usato per spiegare che il Signore ci “primerea” sempre, ci ama per primo, senza condizioni. Poi usa spesso espressioni vivide, che con una sola parola restituiscono un concetto. Ha detto che il Dio dei cristiani è padre, non un “Dio spray” nebulizzato e indistinto. Ha indicato nell’”Alzheimer spirituale” un altro male della curia, consistente nel declino progressivo delle facoltà spirituali. Ha detto che la parola di Dio non è un “fumetto” da leggere per distrarsi ma un insegnamento da applicare. Ha chiesto ai credenti di non avere la faccia triste e arcigna da “peperoncini all’aceto” ma di farsi riconoscere dalla gioia. Ha paragonato la vanità a una “cipolla”: incominci a sfogliarla e non finisci mai, e alla fine ti resta l’odore di cipolla appiccicato alle mani e non te ne puoi liberare. Si potrebbe continuare a lungo. Non c’è che dire: Francesco è molto creativo nell’uso delle parole, il che lo rende ancora più simpatico».