I videogiochi non sono il demonio. Ma attenzione a quello che dicono ai ragazzi

“Un gioco non è solo un passatempo. Ognuno contiene un modello di società, induce a guardare il mondo secondo una particolare prospettiva, influenza insomma in qualche modo il comportamento di chi lo utilizza”. Massimiliano Andreoletti, bergamasco (di Gazzaniga) d’origine e milanese d’adozione, insegna “Didattica del gioco e dell’animazione” all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Videogiocatore, Media Educator, progettista didattico, si occupa di Realtà Virtuale, videogiochi e ambienti online per l’apprendimento e LIM. Con noi parla dei contenuti dei videogiochi, un elemento che spesso viene trascurato anche da genitori ed educatori, preoccupati dal tempo che i ragazzi trascorrono davanti a uno schermo, ma spesso ignari degli effetti che questo ha sulla crescita e sull’educazione. “Accade lo stesso – osserva Andreoletti – anche con i giochi da tavolo tradizionali: pensiamo al Monopoli, che riproduce in miniatura i meccanismi fondamentali del capitalismo, o al Risiko, basato sulle strategie militari”.
Ma è un aspetto di cui spesso chi gioca è del tutto inconsapevole: “Fondamentalmente i ragazzi cercano nei videogiochi qualcosa che li diverta, che gli dia soddisfazione.
Non c’è in loro la consapevolezza che rispondere alle richieste del videogioco possa influire sul modo di osservare la realtà. Bisogna riflettere su cosa si mette in campo per completare una partita. Le parti del cervello che si attivano, azioni e pensiero non si ritrovano identici nella realtà. Si possono però trovare quegli stessi processi applicati ad altre situazioni. Candy Crush per esempio, un gioco molto diffuso anche tra gli adulti, chiede di mettere in serie tre simboli uguali per ottenere punti e raggiungere obiettivi diversi a seconda del livello di difficoltà. Il meccanismo prevede che si cerchi la sequenza migliore per favorire le mosse successive. Un processo di pensiero di questo tipo può essere vantaggioso anche in altre situazioni completamente diverse, fuori dall’ambiente di gioco. Anche scacchi e dama che sono apparentemente lontanissimi dalla realtà rappresentano invece una schematizzazione estrema e molto efficace di un modello”.

Oggi sono molto di moda, soprattutto tra i più piccoli, i giochi di “costruzione di mondi”. C’è per esempio Clash of clans, ambientato in una sorta di medioevo fantastico che ricorda le atmosfere di Tolkien in cui si costruiscono villaggi e ci si sfida in battaglie e tornei. E ancora Hay Day, in cui i giocatori danno vita a una fattoria e devono prendersi cura di tutte le attività ad essa legata, dalla tosatura delle pecore alla coltivazione dei campi e fino alla vendita dei prodotti, oppure, per Nintendo, Animal Crossing in cui si può diventare sindaci di una città e pianificarne la vita. “L’obiettivo macro di questi giochi – sottolinea Andreoletti – è crescere, avere un clan, un villaggio, una fattoria, una città, sempre più grande, più bella, più ricca. Ma qual è la metafora che si nasconde dietro al gioco? La più semplice da individuare è la costante crescita, che è in fondo il sottofondo della teoria economica che governa la nostra società”.

La “crescita costante” per i produttori dei videogiochi diventa anche un mezzo per ottenere dei profitti: “Molte di queste applicazioni – dice Andreoletti – partono come gratuite ma per aggiungere degli elementi bisogna fare degli acquisti. In passato questi acquisti partivano quasi in automatico e gli utenti se ne accorgevano quando arrivava il conto. Oggi invece devono per legge essere chiaramente segnalati. La progressione del gioco migliora se l’utente fa acquisti, ma solo fino a un certo punto. Passato il confine, i risultati diventano simili a quelli dei giocatori senza acquisti. Sta poi alla coscienza del produttore del gioco rendere più o meno gratificanti le diverse modalità di gioco, gratuite o no”.

Un fenomeno cresciuto molto con la diffusione delle applicazioni per tablet e smartphone è il gioco degli adulti: “Ormai non sono più soltanto i più piccoli a giocare con i videogame”.