Dopo Garissa. Una voce dal Kenya: «Non ci pieghiamo alla paura. Noi vogliamo vivere»

“Vorremmo che tutti i terroristi del mondo sapessero che non ci siamo piegati alla paura perché la paura non ti lascia vivere”. È questa la voce del Kenya a quasi quindici giorni (era il 2 aprile) dalla terribile strage all’Università di Garissa. Centoquarantotto vittime, una carneficina firmata con il sangue dal gruppo terroristico Al-Shabaab. Un bilancio pesantissimo che ha lasciato il Paese “nella tristezza e nello sgomento. Nessuno si aspettava una simile crudeltà. Ci siamo ritrovati senza una risposta”. A raccontare lo stato d’animo del Paese è Liliane Mugombozi, responsabile del giornale “New City Africa” (la rivista di Cittànuova in edizione africana) e docente di scienze della comunicazione all’Università Cattolica di Nairobi. È appena atterrata a Roma per partecipare a un incontro internazionale di comunicatori provenienti da molte parti del mondo che fanno riferimento al Movimento dei Focolari. Ma nei suoi occhi c’è tutto il dolore del suo Paese. Il Kenya ha pianto i suoi morti ma “vuole continuare a vivere – dice Liliane -, a guardare al futuro. L’Africa in genere e anche il Kenya hanno una popolazione giovane. Abbiamo rifiutato di vivere nella paura. Siamo popoli vibranti, con la voglia di guardare in avanti e, per questo, non ci si lascia piegare dalla paura del futuro”.

Liliane Mugombozi era lì a Nairobi quando sono sfilate le bare delle 148 vittime di Garissa. Il governo ha voluto portare le salme nel mortuario dell’Università Statale di Nairobi presso l’Istituto di medicina legale per ridare loro onore ma anche per consentire in modo dignitoso e ordinato l’identificazione e il ricongiungimento con i familiari. “Sono andata lì – racconta la giornalista – con la macchina fotografica, l’mp3 e il mio notebook ma una volta arrivata non sono riuscita a scattare una foto, raccogliere un commento. Mi sono trovata davanti a un dolore grandissimo, genitori che svenivano. Troppo grande era per loro la sospensione di sapere se tra quelle bare c’erano anche i corpi dei loro figli. Mi sono sentita scomoda e mi sono chiesta quale diritto avevo di fare domande. E di fronte ad un dolore così forte, ho scelto il silenzio e di stare a fianco delle famiglie per far mio il loro sgomento”.

Il pericolo purtroppo non è finito. Al-Shabaab ha annunciato di essere determinato a continuare ad uccidere. “Altro sangue scorrerà nelle città del Kenya”. I terroristi hanno capito che i giovani sono il futuro di una Nazione ed hanno deciso di colpire proprio loro. Fonti concordanti dicono che alcune Università del Paese ricevono sistematicamente minacce. Tra queste c’è anche l’Università Cattolica dell’Africa dell’Est che ha sede a Nairobi ed è sostenuta dalle Conferenze episcopali di Zambia, Malawi, Kenya, Etiopia, Eritrea. Le minacce arrivano attraverso messaggini o direttamente dalle persone. Per i suoi progetti di morte Al-Shabaab usa i giovani che frequentano le Università. “È successo così anche a Garissa – ricorda Mugombozi -: c’era uno studente nel gruppo che ha assalito il College”. Lo scorso anno un alunno dell’Università Cattolica di Nairobi ha confessato la presenza di una bomba nelle aule pronta a scoppiare. L’hanno trovata e, per fortuna, l’hanno disattivata.

Ma non è una guerra di religione.
La giornalista tiene a precisare che la religione e, quindi, l’Islam non c’entrano nulla con il terrorismo degli Al-Shabaab. Ne è una prova il fatto che gli stessi Imam del Paese hanno reagito condannando con forza l’attentato di Garissa e i leader del Consiglio supremo dei musulmani del Kenya (Supkem), hanno compiuto una visita al vescovado per esprimere solidarietà alla Chiesa. Gli Al-Shabaab – insiste Liliane – sono “una frazione degli estremisti. C’è una forza del male che cerca di manipolare le nostre differenze, usando le realtà concrete del nostro Paese. Ci sono giovani di origine musulmana, che sono vulnerabili per via della povertà e della emarginazione”. Garissa, per esempio, si trova al confine con la Somalia, Paese dove da decenni non c’è governo, si vive in totale anarchia e tanti rifugiati si dirigono in Kenya dove però i giovani si trovano in un altro Paese e con poche speranze di futuro. “Il terrorismo purtroppo trova in queste anime scontente e scoraggiate una terra feconda facendo loro credere che è in corso una guerra tra musulmani e cristiani: cosa che non è vera perché la guerra tra religioni non esiste”.

Brucia ancora in Kenya il ricordo dell’attentato al Westgate shopping mall il 21 settembre del 2013. E solo due anni fa hanno disattivato una bomba nella cattedrale di Nairobi, la notte di Natale. Nonostante questo, pochissime persone hanno rinunciato ad andare a Messa. Ora prima di entrare in chiesa, c’è il controllo della sicurezza e dei metal detector. Ci si mette tutti in fila per entrare. Eppure le chiese sono sempre piene di gente. “È un segno evidente – dice Mugombozi – di un Paese che ha rifiutato di avere paura ed è pronto ad aprire ogni spiraglio possibile di dialogo e di speranza”.