Per chi non vuole le moschee. Le molte fedi di oggi e la lezione dell’editto di Milano, 1700 anni fa

“Noi dunque Costantino Augusto e Licinio Augusto abbiamo risolto di accordare ai cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinchè la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità… Riteniamo pertanto con questa salutare decisione e corretto giudizio, che non si debba vietare a chicchessia la libera facoltà di aderire, vuoi alla fede dei cristiani, vuoi a quella religione che ciascheduno reputi la più adatta a se stesso. Così che la somma divinità, il cui culto osserviamo in piena libertà, possa darci completamente il suo favore e la sua benevolenza”. Cosi l’editto di Milano, millesettecentodue anni fa. Un gesto che con lucidità seppe interpretare i cambiamenti in atto e fissò i criteri per un nuovo modello di convivenza sociale e religiosa. Che permise – oltre l’errato pregiudizio di molti, ancora oggi convinti che con Costantino il cristianesimo sia diventato religione di stato (che avvenne solo quasi settant’anni dopo) – il riconoscimento pubblico di ogni fede e, al tempo stesso, di comprendere che le appartenenze religiose non dovessero prevalere sul diritto alla piena cittadinanza di ciascuno. Una lezione a lungo disattesa da noi cristiani convinti, nell’abbraccio tra trono e altare, che la storia, oramai sotto il segno della croce, fosse la prova definitiva della nostra fede. E che questo comportasse l’umiliazione, se non la persecuzione, di quanti non credevano il nostro stesso Dio. Cosi recita infatti un paragrafo dell’Editto di Tessalonica dell’imperatore Teodosio (380): “Gli altri li consideriamo come persone senza intelletto e ordiniamo di condannarli alla pena dell’infamia come eretici, e alle loro riunioni non attribuiremo il nome di chiesa; costoro devono essere condannati dalla vendetta divina prima, e poi dalle nostre pene, alle quali siamo stati autorizzati dal Giudice Celeste”.

IL MOSAICO DELLA FEDE

Ora la lezione di Costantino è tornata prepotentemente alla ribalta. Lo abbiamo scritto settimana scorsa: abitiamo in città sempre più plurali, alla presenza e in compagnia di donne e uomini di fedi diverse. Seppure l’immaginario del nostro Paese permanga ancora staticamente – e statisticamente – centrato sull’assioma crociano, pur spesso frainteso, per cui non possiamo non dirci cristiani (che stava, beninteso, rigorosamente per cattolici), la visibilità sociale e il protagonismo delle voci religiose altre sotto il nostro cielo sono aumentate ad un livello tale che si può considerare, senza timore di smentite, un punto di non ritorno. Abbiamo infatti vissuto, e abbiamo ormai quasi alle spalle, la stagione del passaggio dalla religione degli italiani all’Italia delle religioni, per cui ora siamo immersi, come scrive Paolo Naso, nel mosaico della fede.

METICCIATO DI CIVILTÀ

Per questo oggi ci troviamo di fronte ad una sfida simile al tempo di Costantino. Che comporta, tra le altre cose, in questo “meticciato di civiltà”, di definire serenamente – e urgentemente – i criteri e i modelli d’integrazione con donne e uomini delle nuove culture e religioni che da ormai più di una generazione si sono inserite nel tessuto del nostro territorio. Di riconoscere i “semi di verità” presenti in ogni esperienza religiosa. Di andare alla radice della vicenda cristiana per scoprire che essa apre inevitabilmente all’altro e al diverso Il credente sarà pronto al dialogo non solo quando conosce la grammatica di una o più religioni ma nella misura in cui raggiunge la profondità di fede. Di garantire una cittadinanza piena, in nome del Vangelo e della Costituzione, di quanti pregano e chiamano Dio con nomi diversi. Di assumere la laicità come soglia di garanzia per ogni fede.

LA SFIDA DA CUI NON CI SI PUÒ SOTTRARRE

Le paure di tanti sono comprensibili. In fondo, il pluralismo religioso è senza dubbio la grande sfida che il cristianesimo deve affrontare all’inizio del III millennio. Una sfida più radicale dell’ateismo, perché pone direttamente in causa l’identità cristiana stessa. Eppure la strada della convivialità della differenze è tracciata. E non si torna indietro. Chi lo fa, tradisce l’uomo e il Dio in cui crede.