La felicità? Lo dicono tutti: è un lavoro sicuro. Federico: «Ma io ho deciso di fare il freelance»

Essere giovani nel 2015 significa molte cose. Significa essere choosy e bamboccioni, sosteneva qualcuno; significa convivere l’incertezza del futuro e lo spettro della disoccupazione. Significa guardare avanti in modo diverso rispetto a quanto avevano fatto le generazioni precedenti, con nuovi occhi e nuovi modelli, e significa anche – forse – cercare un’idea diversa di felicità. Un’idea che, in un modo o nell’altro, passa sempre dal concetto di “lavoro”.
Quando si chiede ai giovani cosa significhi “felicità”, nove su dieci risponderanno “avere un lavoro sicuro”. Nel mondo in cui l’incertezza è diventata uno stile di vita obbligatorio, l’idea di felicità passa da quello che fino a qualche decennio fa era un obbligo, una costrizione o una necessità: il lavoro. E allora per certi versi si recupera quel concetto “borghese” e poco affascinante di sicurezza, di stabilità, che tanti prima della crisi snobbavano, perché in esso erano rinchiusi i germi di un’esistenza noiosa e ripetitiva. Parlando con i miei coetanei, mi sono resa conto che pochi – davvero pochi – si definirebbero felici: sono stanchi, tutt’al più sollevati perché hanno un lavoretto. Sono concentrati sul presente. Ma la felicità? “Dovrei avere un lavoro sicuro”, è la risposta. Come si può essere felici, ad esempio, se tra due mesi finisce il contratto a progetto e non si sa cosa succederà poi? Come si può essere felici, se si è consapevoli che non si sta costruendo niente per gli anni a venire?
Eppure sarebbe sbagliato parlare di giovani depressi. Perché accanto alle difficoltà, alle incertezze e al precariato, c’è anche una fetta sempre più ampia di giovani che – cresciuti senza le illusioni del pre-crisi – vede in questa società liquida e instabile un’occasione. Un’occasione di riuscita, di crescita e anche di felicità. Venuta meno la prospettiva di un posto fisso per tutta la vita – quello al cui culto sono stati allevati i nostri genitori – si apre un ventaglio di nuove possibilità: andare all’estero. Provare ad aprire una piccola start-up facendo ciò che si ama fare (invece che sfiancarsi in lavoretti sconclusionati e lontani dalle proprie aspirazioni). Inventarsi il lavoro da zero. Aprire partita Iva e costruirsi da sé il futuro. Mettersi in gioco, magari rinunciando ad apparenti sicurezze che in realtà sono gabbie e illusioni. Come ha fatto Federico, trent’anni, residente a Milano e specializzato in grafica e illustrazione. «Prima lavoravo full time in una copisteria – spiega -: mi avevano fatto aprire partita Iva in modo da non pagarmi i contributi. Allora ero molto ingenuo e non avevo piena consapevolezza che mi stessero sfruttando. Lavoravo lì tutto il giorno per una miseria e non avevo il tempo e le forze per fare nient’altro». Quando ha chiesto un piccolo aumento, è stato licenziato: «Ho trovato un altro lavoro in uno studio editoriale. Ma anche qui dovevo rispettare orari e obblighi da dipendente, anche se avendo partita Iva a loro “costavo” meno di un dipendente. Non ero felice: mi sentivo stanco e frustrato, e mi chiedevo se era questa la vita che volevo fare. La risposta era no, così ho mollato tutto e ho ripreso in mano i miei sogni». Federico ora lavora da casa come grafico e illustratore freelance: si gestisce i suoi spazi e il suo tempo, fa il lavoro che gli piace e non vive più la frustrazione di essere sfruttato e in qualche modo “obbligato” a sottostare a schemi che né lo tutelano, né lo soddisfano. «Ora mi sento felice e libero – spiega – perché posso coltivare la mia professionalità e fare ciò che desidero, chiedendo il giusto pagamento per le mie competenze. Mi dà molta più sicurezza e fiducia per il futuro questo, che non stare ad aspettare i comodi di datori di lavoro poco corretti. La felicità passa anche dalla libertà di scegliere e di costruire il proprio futuro, in un modo o nell’altro, a seconda delle inclinazioni di ciascuno».