L’immagine della vite. Il cristiano, talvolta, è tralcio senza vita

Immagine: Gesù  vera vite, icona russa

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato (Vedi Vangelo di Giovanni 15, 1-8. Per leggere i  testi liturgici di domenica 3 maggio, quinta di Pasqua, clicca qui)

UVA BUONA E UVA SELVATICA

L’immagine della vigna è molto importante nella tradizione biblica. Basta ricordare il profeta Isaia: “Canterò per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva vangata e sgombrata dai sassi e  vi aveva costruito in mezzo una torre e scavato anche un tino…”. Ma la vigna, invece di produrre uva buona, ha prodotto uva selvatica. L’immagine della vigna serve a esprimere, soprattutto, il contrasto fra amore di Dio e il non amore del popolo. Dio ama continuamente, ostinatamente Israele, ma Israele non risponde, dimentica Dio, gli preferisce le divinità straniere che sembrano assicurare la pioggia per i campi e la fertilità degli animali.

In questo vangelo Gesù “ricorda” quelle immagini. La gente che lo ascolta sa che Dio ha parlato di Israele come di una vigna. Quando perciò dice “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo” la gente conosce il senso di quell’immagine. Gesù si identifica con una pianta: lui è il ceppo della vite e i discepoli sono i rami. Tra lui e i suoi discepoli esiste dunque una profonda unità.

Ma se Gesù è la “vera vite”, i tralci innestati su quella vite dovranno produrre buona uva. Se i tralci non producono uva non è colpa del ceppo, che è uva buona, ma del ramo. Dunque il discepolo, unito al suo Signore, se è veramente discepolo “produce frutti”, amando e perdonando come il suo Signore. Allora sarà davvero il buon tralcio della vera vite.

Non basta dunque la fede astratta e non basta neppure la semplice adesione: bisogna “dare frutti”… E se non si danno buoni frutti bisogna essere potati. La potatura avviene grazie alla Parola che i discepoli hanno accolto: Parola che urta, che sconcerta, che esige forti cambiamenti: sono queste le “potature”… Quando poi, il tralcio si stacca dalla vite, allora, privato del flusso di linfa che lo tiene in vita, muore: lo si  taglia, lo si butta nel fuoco. L’immagine del fuoco che brucia ha chiare allusioni agli “ultimi tempi”. Alla fine i tralci fecondi e quelli inutili non potranno più essere confusi…

 LE “POTATURE”. LE SOFFERENZE E LE LORO POSSIBILITÀ

La potatura. La vite dà frutti se viene potata. In altri termini: la sofferenza fa crescere. La nostra cultura ha terrore della sofferenza – come della morte. E così avviene che la sofferenza e la morte ci colgono sempre impreparati.  Si soffre senza sapere come e perché. La croce di Gesù significa che il dolore, quando rientra in un progetto di vita costruttivo, positivo, in un dono, diventa esso stesso momento di quel dono e perfino momento decisivo. Ma bisogna avere quel progetto e bisogna vivere la sofferenza come momento di quel progetto. Il testo ci dice che è il padre che “pota” i suoi  figli. Ma per credere questo bisogna credere nel padre e credere che noi siamo suoi figli.

Il termine “rimanere” ritorna più volte in questo vangelo. È un accenno, variamente modulato, alla stabilità del rapporto del discepolo con il Signore. Viviamo in una cultura ansiosa che corre sempre verso qualche cosa d’altro e nella quale la felicità abita sempre altrove. La Chiesa oggi può rappresentare il luogo alternativo dove, invece di correre, si sta e si “rimane”. E si rimane perché si possiedono buoni motivi per rimanere: la Parola che ci racconta un Amore sorprendente e, per noi, “inspiegabile”, il pane spezzato da mangiare mentre attraversiamo i nostri deserti, la fraternità che ci rende accettabili perfino le pesanti fatiche del viaggio.