Le nuove paure sono antiche, tra capri espiatori, conversioni all’Islam, Califfato e altro… Intervista a Marc Augé

Foto: l’antropologo francese Marc Augé

Alla paura si può reagire innalzando muri difensivi, oppure decidendo di distrarsi, di pensare ad altro. Una terza possibilità – quella di fissare lo sguardo sui pericoli che ci minacciano, cercando di capirne le cause e di immaginare dei rimedi – è rappresentata da un recente volumetto di Marc Augé, Le nuove paure. Che cosa temiamo oggi?  (Bollati Boringhieri, pp. 82, 9 euro – disponibile anche in eBook a 6,99 euro). Nato a Poitiers nel 1935, l’antropologo francese è noto per aver applicato alle società del terziario avanzato gli esiti delle ricerche da lui condotte presso gruppi tribali dell’Africa e dell’America latina: è divenuta popolarissima, per esempio, la sua teoria dei ‘nonluoghi’, gli spazi impersonali (parcheggi, svincoli autostradali, sale d’aspetto delle stazioni) che costellano le nostre città. Con Le nuove paure, Augé ha vinto la quarta edizione del Premio internazionale Filosofi lungo l’Oglio (vedi sotto), che gli è stato consegnato sabato 4  a Iseo.

Le “nuove paure” descritte in questo libro sono veramente nuove? Hanno un contenuto inedito rispetto a ciò che temevano i nostri predecessori, nelle epoche passate?

“No, io credo che le paure, fondamentalmente, siano sempre le stesse. Il cambiamento riguarda il modo e le proporzioni con cui esse oggi si diffondono. Le parole chiave, in questo caso, sono globalizzazione e mediatizzazione. Rispetto ai secoli precedenti, il nostro ha una percezione viva della prossimità delle cose: i media fanno sì che gli eventi si riverberino ovunque e che noi sappiamo in brevissimo tempo di catastrofi avvenute altrove, in Giappone o nell’Africa subsahariana. Questo effetto di “contemporaneità” alimenta il sentimento di una minaccia incombente. Non si tratta solo di un’apparenza ingannevole, di un brutto sogno, poiché effettivamente tutte le regioni del mondo sono oggi  legate da rapporti di interdipendenza, in una misura sconosciuta in passato. La minaccia del riscaldamento globale, la recessione economica avviatasi nel 2008 e i grandi flussi di migranti diretti in Europa ci dicono che il pianeta è davvero divenuto “piccolo”.

Entro certi limiti, alla paura si potrebbe attribuire un valore positivo, dato che ci spinge a reagire, a cambiare i nostri comportamenti perché siano adeguati a situazioni inedite?

“Oggi, però, si va diffondendo il sentimento di una ‘sproporzione’ degli elementi di crisi rispetto alle nostre capacità di adattamento, apprendimento e controllo. In breve, si fa strada un dubbio sulla capacità del nostro ‘sistema-mondo’ di resistere alle sfide presenti”.

Nel tentativo di “dar forma” alle paure e ai pericoli, le società umane non ricorrono spesso a dei capri espiatori?

“È così. Nelle culture tradizionali africane si immagina che, quando un individuo cade malato, egli sia rimasto vittima di un maleficio, che qualcun altro abbia lanciato contro di lui un malocchio. In forme diverse, questa concezione persecutoria è presente anche nelle nostre società: lo conferma il dibattito in corso in questi giorni, per cui, di fronte alla drammatica crisi finanziaria che attanaglia la Grecia, se ne imputa la colpa, secondo i punti di vista, ai suoi abitanti, al premier Tsipras, oppure al resto dell’Unione Europea. Tuttavia, oggi, emerge qua e là il dubbio che una visione persecutoria dei nostri problemi non sempre funzioni, che non basti ‘trovare un colpevole'”.

Può essere che abbiamo imparato una lezione, dalla storia del Novecento? Il ricordo di una lunga serie di linciaggi e genocidi rende meno facile il ricorso a nuove vittime sacrificali?

“Io non sono sicuro che dalla storia vengano delle ‘lezioni’. Volendo vedere le cose in positivo potremmo forse dire, rispetto ai genocidi del secolo scorso, che nella consapevolezza comune è entrata  l’idea dell’’intollerabilità’ di massacri di tali proporzioni; in fondo, anche la nascita dell’Onu e di altri organismi internazionali che dovrebbero tutelare i diritti umani è stata un frutto di questa nuova sensibilità. È probabile che manifestazioni di un male collettivo come quelle che hanno segnato la storia del Novecento non si ripeteranno letteralmente in futuro. Questo, purtroppo, non significa che la violenza non possa assumere altri aspetti, il più eclatante dei quali, attualmente, è il terrorismo internazionale con motivazioni religiose. Anche questo fenomeno è figlio della globalizzazione: ciò che più colpisce, in esso, è la sintesi della componente fondamentalista (con il rimando a veri o presunti ideali religiosi del passato) e l’uso disinvolto dei nuovi media, come Internet e i blog, a scopo di propaganda. Questo intreccio di arretratezza e di raffinata tecnologia accresce il senso di pericolo, nell’immaginario dell’opinione pubblica occidentale”.

Come si spiega il fatto che degli occidentali partano per il Medio Oriente e si arruolino nell’esercito del “Califfato”? Nei giorni scorsi, i giornali hanno segnalato il caso di un giovane italiana trasferitasi in Siria con il marito.

“Vi sono sempre state persone sensibili alla propaganda radicale, oltre che alla prospettiva di imbarcarsi in un’avventura. Mi pare, da questo punto di vista, che il fenomeno delle conversioni alle frange più intolleranti dell’islam sia tutto sommato marginale. Più che di ‘conversioni’, semmai, io parlerei di ‘convulsioni’, per indicare un tratto peculiare della nostra epoca: nel senso che siamo forse prossimi non certo alla ‘fine della storia’, come profetizzava qualche tempo fa il politologo Francis Fukuyama, ma piuttosto alla fine della preistoria dell’umanità, intesa come specie planetaria. Le contraddizioni di cui attualmente facciamo esperienza corrisponderebbero così a un travaglio doloroso, precedente l’ingresso in una nuova epoca e in una nuova condizione di vita, di cui oggi possiamo avere solo il presentimento. Su scala geologica, Homo sapiens ha fatto il suo ingresso in scena solo di recente, circa 200mila anni fa; può essere che tale lasso di tempo abbia costituito solo un preambolo rispetto alla nascita di una società umana mondiale. Il problema è che ‘globale’ non è sinonimo di ‘universale’: la globalizzazione procede spesso per esclusione dei particolari, mentre una vera universalità dovrebbe andare al fondo delle differenze, come elementi essenziali della natura umana”.

Lei fa spesso riferimento a un’«utopia dell’educazione», come ideale politico di riferimento per il nostro tempo. In Italia, l’attuale governo ha messo mano a un’ulteriore riforma del sistema dell’istruzione.

“Anche in Francia, così come in altri Paesi europei, si discute spesso circa l’opportunità-necessità di riformare il sistema scolastico. A rischio di apparire semplicistico, affermerei che bisogna partire dai soldi, dai finanziamenti: si tratta di decidere se davvero vogliamo riconoscere una priorità all’educazione, nei capitoli di spesa dei singoli Stati. So bene che l’ideale di una vera educazione garantita a tutti è un’utopia; rientra però tra le buone utopie, quelle capaci di attivare il pensiero e le energie collettive. Del resto, non basta limitarsi a risolvere problemi particolari, o apportare dei ritocchi, per rendere adeguati i sistemi di istruzione alle sfide del presente. Pensiamo, per esempio, alla diffusione nelle aule scolastiche della nuova tecnologia digitale: gli studenti potrebbero essere indotti a pensare che tramite un pc l’intero scibile umano sia a loro disposizione. Illusione pericolosa: non basta rendere accessibili nuovi strumenti e immensi archivi di dati, occorre anche insegnare a riflettere criticamente su come usarli. Altrimenti, vi è il rischio di scambiare per il mondo reale ciò che appare su un monitor. In breve: i mezzi devono restare tali, non devono diventare dei fini in sé”.

Che cosa potrebbe accadere, se non si renderà “democratico” il sapere? Andremmo verso un cognitive divide tra le élite dirigenti e coloro che dalla conoscenza sono di fatto esclusi?

“Non si tratta di una minaccia: al momento attuale, è già una realtà. Se questa tendenza dovesse perdurare, se dovesse crescere ulteriormente il divario tra coloro che detengono il sapere e le moltitudini che ne sono escluse, ci troveremmo in una situazione esplosiva. Per certi aspetti, il fondamentalismo religioso e il terrorismo internazionale sono già una conseguenza di questa sperequazione nell’accesso alla conoscenza, indipendentemente dai percorsi individuali di coloro che decidono di appoggiare la causa del jihad. Ritorniamo, così, alla questione della necessità di correggere il processo della globalizzazione, nel senso di un’autentica ‘universalità’. Io sono molto affezionato a una formula di Jean-Paul Sartre, tout homme, tout l’homme:  ogni individuo porta in sé la quintessenza dell’umanità. Come antropologo, sono portato a distinguere tre dimensioni del fenomeno umano: quella individuale, quella generica e quella culturale, che dovrebbe mediare tra le prime due. La cultura, però, può anche alimentare ingiustizie ed esclusioni: tra i nostri compiti, nell’elaborare una cultura per la società mondiale del prossimo futuro, sarà di farne uno strumento di emancipazione, non di asservimento dei popoli a vecchi o nuovi centri di potere”.

 

In coincidenza con l’Expo 2015, la decima edizione del festival culturale Filosofi lungo l’Oglio ha come titolo generale Pane quotidiano per tutta l’umanità. Dopo il conferimento del premio a Marc Augé per il suo libro Le nuove paure, la rassegna – di cui è direttore scientifico Francesca Nodari – ha in calendario altri incontri e conferenze, fino al prossimo 17 luglio (il programma completo degli eventi, distribuiti quest’anno tra le province di Brescia, Cremona e Bergamo, è pubblicato sul sito www.filosofilungologlio.it).