Memoria di Arturo Paoli, una vita al servizio dei poveri e del Vangelo

Lunedì 13 luglio,  a 102 anni, è morto Arturo Paoli,
una delle figure più belle del cattolicesimo italiano del Novecento.
Lo vogliamo ricordare con questa intervista
che Daniele Rocchetti gli fece, alcuni anni fa

“Ho sempre cercato il Regno di Dio che per me vuol dire realizzare una società più umana, più giusta, più fraterna”. Lungo questo filo corre tutta la vita di Arturo Paoli. Nato a Lucca nel 1912, fratel Arturo ha dedicato tutta la sua vita ai poveri, agli emarginati, alle vittime di ingiustizie. Laureatosi in lettere classiche a Pisa viene ordinato sacerdote nel 1940. Tra il 1943 e il 1944 partecipa alla Resistenza. Assistente nazionale dell’Azione Cattolica negli anni cinquanta, fu costretto alle dimissioni per le sue posizioni in contrasto con la gerarchia. Nel 1954 riceve l’ordine di imbarcarsi come cappellano su una nave argentina destinata agli emigranti. Durante questi viaggi conosce i Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld ed entra nella loro congregazione. Terminato il noviziato ad El Abiodh, nel deserto algerino, svolge il lavoro di magazziniere nel porto di Orano (Algeria) e poi nelle miniere di Monterangiu in Sardegna. Nel 1960 si reca in America Latina per avviare una nuova fondazione: qui vive con i boscaioli della foresta argentina. Quando il clima politico peronista si fa pesante, subisce una campagna denigratoria: il suo nome è nell’elenco di quelli che devono essere soppressi. Nel 1974 si trasferisce in Venezuela; anche qui il suo lavoro è di impegno pastorale e di promozione sociale. Nel 1983 comincia a soggiornare in Brasile, dove, dopo la dittatura militare, prende vita una Chiesa che è tra le più vive dell’America Latina. Nel 1999 lo Stato d’Israele gli conferisce la nomina a “Giusto tra le Nazioni” per aver aiutato e salvato alcuni ebrei nel 1944 all’epoca delle persecuzioni naziste. Dopo aver vissuto per molto tempo a Foz de Iguacu, nel barrio di Boa Esperanza, in Brasil, negli ultimi anni si è ritirato a Lucca.

Da cinquant’anni tu sei Piccolo fratello. Come hai vissuto la beatificazione di Charles de Foucauld?

Devo confessarti, in verità, che noi,  seguaci di Charles de Foucauld e membri di congregazioni e movimenti che sono nati attorno al suo carisma, non ci siamo mai preoccupati molto della sua beatificazione. Né la preparazione né tutto il resto non sono mai stati in mano nostra. Personalmente credo che la beatificazione possa aiutare a richiamare l’attenzione su di lui. Piuttosto mi ha sorpreso– rispetto ad altri personaggi – il ritardo con cui lo si è riconosciuto beato.

Dove sta l’attualità di De Foucauld?

Charles è stato un missionario che ha vissuto tutta la sua vita sacerdotale con i mussulmani senza convertirne uno. Ha assimilato la loro cultura, interessandosi profondamente alla loro vita, li ha amati profondamente ed è stato amato profondamente, in un certo senso facendosi “uno di loro”. Questo mi sembra molto esemplare nel mondo attuale dove dobbiamo abituarci a convivere con grande rispetto con persone di cultura e fede diverse dalla nostra e dove spesso, invece, si vuole strumentalizzare la fede per motivi politici. Il primo francobollo che la Repubblica Algerina ha emesso portava l’immagine di Charles de Foucauld,  come a voler sottolineare che, veramente, egli è stato un “fratello universale”.

Mette in discussione l’idea che normalmente abbiamo di “missione”…

Basta leggere il capitolo 10 del Vangelo di Luca. Si deve andare tra i poveri come amici, senza nulla, e farsi accogliere. Bisogna invertire la posizione: non sono io, ricco, che vado al povero, ma devo andarci povero, alla pari con lui. Sì, è il concetto stesso di missione che bisogna cambiare. Se c’è una disuguaglianza di partenza non si può mai creare una vera amicizia.

Tu sei entrato nei Piccoli Fratelli dopo aver lasciato l’Azione Cattolica…

Nel 1952 il presidente nazionale dell’associazione, Luigi Gedda, diede vita ai “Comitati Civici” per alzare una barriera nei confronti dei comunisti. L’operazione era insostenibile e moralmente riprovevole. I vescovi sceglievano chi lanciare in politica a difendere gli interessi della Chiesa e la mobilitazione di preti, suore, credenti doveva far sì che si votasse in conformità a quanto stabilito dalla gerarchia. Per molti di noi fu insopportabile e per me – che ero prete dal 1940 – iniziò un periodo di crisi e di ripensamento profondo. La seduzione della politica è un rischio che ha tentato spesso la Chiesa italiana. Bastano poche promesse, la garanzia di tutela di alcuni principi e si apre la strada della corruzione del Vangelo. Oggi, dopo tanti anni, sono, di nuovo, costretto a ripetere – come cristiano e come prete – il valore e il principio della laicità della politica.

Dopo che te ne andasti cosa successe?

Mi chiesero di fare il cappellano sulle navi che accompagnavano in Argentina i nostri emigranti. Dovevo stare con loro, ascoltarli, confortarli. E proprio sulla nave un giorno ho avuto modo di conoscere Jean Saphores, un piccolo fratello della Fraternità di Lima. Conoscevo già Charles de Foucauld e avevo già letto diverse cose su di lui. La conoscenza e l’amicizia (durata tutta la vita) con questo uomo mite, che veniva dal Perù e ritornava in Francia per trovare la sua famiglia, mi aiutarono ad approfondire ancora di più la spiritualità dei piccoli fratelli che sentivo molto vicina alle mie attese e all’ideale evangelico. Mi affascinava il suo racconto di vita tra i poveri: sentii che quello era il mio posto. Gli chiesi di poter parlare con il fondatore della Fraternità, Renè Voillaume. Data l’età, – avevo più di quarant’anni –  pensavo che non mi avrebbero accolto e invece quasi immediatamente mi arrivò la notizia che lui mi aspettava per conoscermi e per  parlare con me. Acconsentì subito alla mia richiesta. Scrissi allora a mons. Montini, allora Segretario di Stato, per poter avere la licenza.  Al momento Montini non era molto d’accordo perché pensava che io agissi sotto il peso degli avvenimenti che erano stati per me drammatici. Quando capì la mia sincerità mi disse che ero libero di scegliere. Partii allora per El Abiodh, nel deserto algerino, per vivere il mio periodo di noviziato. Al termine, andai ad Orano dove ho lavorato come magazziniere al porto e ho vissuto con gli arabi. Quando ho finito, sono andato in Sardegna con gli operai delle miniere e poi in America Latina, nelle favelas argentine, con i boscaioli.

Insomma, da una Chiesa trionfante e muscolare ad una presenza segnata dal nascondimento e dalla minorità…. Il passaggio non deve essere stato indolore.

Molti di noi non ne potevano più di una Chiesa trionfante! Volevamo una Chiesa vicina al Vangelo, capace di contemplazione e, insieme, custode dei piccoli e dei poveri. Anche perché – l’ho scoperto nella mia vita – la minorità porta con sé la fraternità. La scelta dell’ultimo posto è anche una scelta politica. Chi l’ha capito profondamente è stato Levinas. In una conferenza tenuta a Parigi, senza mai nominare Cristo, usa le sue parole: “Colui che non ha dove posare il capo…” e le commenta in questo modo: “Chi può scardinare il potere, chi può scardinare l’ingiustizia? Solamente chi sceglie l’ultimo posto!” L’avevo già inteso quando studiavo all’università ma con chiarezza Levinas mostra che chi sta in alto ha tutto l’interesse a difendere sé, la sua identità, i suoi privilegi e quindi ha un atteggiamento radicalmente individualista. Il ricco è antistorico per essenza, non ha desiderio di cambiare la situazione e vuole, con tutte le sue forze, che il mondo resti com’è. I poveri invece sono comunitari per bisogno, per difficoltà. Sanno che solo mettendosi insieme, che solo cambiando la situazione politica, la loro storia può subire una trasformazione.

Poveri e povertà paiono essere temi tolti dall’agenda della chiesa di oggi…

I poveri sono dovunque. Gesù ha detto ‘i poveri li avrete sempre con voi’. Purtroppo la storia è sempre una relazione tra vinti e vincitori, tra schiavo e padrone. Bisogna mettersi dalla parte dello schiavo e dell’oppresso, anche politicamente. Un parroco deve guardare alla sua chiesa non dalla parte delle pie signore che lo circondano ma dalla parte dei poveri. Guardare il mondo, la storia, Dio stesso, con la prospettiva e gli occhi dei poveri è qualcosa che sorprende ma è la conversione a cui siamo chiamati.

Uno dei capisaldi della spiritualità di de Foucauld è l’adorazione eucaristica. Che rapporto c’è tra  eucaristia e lotta?

Credo, anzitutto, che bisogna intendersi sull’Eucarestia. Che non è solo culto ma dono di Gesù al mondo e, quindi, dono di sé. È il cammino che ha fatto Charles quando si chiede “Dov’è Gesù?”.  Prima risponde che è nell’Eucarestia, poi, a poco a poco, comprende che è nei poveri. Il corpo di Cristo è  nei poveri. Per questo, la vera Eucaristia è impegno per fare della propria vita un dono, un’offerta di liberazione. Nelle nostre comunità, molte volte l’Eucarestia resta un fatto individuale e intimista. Certo, il dramma non è solo religioso ma anche culturale. Abbiamo abbassato lo sguardo sulla storia, ridotto lo spazio della profezia. È la capacità di leggere il presente secondo gli occhi di Dio, di resistere con speranza. A volte ho l’impressione che la Chiesa – non tutta – abbia ritirato Dio in cielo. Dice agli uomini: consolati, il Regno di Dio è vicino. Nelle omelie dei preti si parla di cose lontane. I sacramenti sono parole e non simboli. Dov’è lo Spirito che sprona a fare? Il Vangelo ha raccomandato l’annuncio attraverso la persona, non attraverso le parole. È la persona che parla. La parola è solo rimedio d’emergenza. Se la mia vita non testimonia, io non posso neppure parlare.

Tutto questo in che relazione è con il nascondimento?

Me lo sono chiesto spesso stando con i poveri. Come stai con loro? Puoi starci come dominatore o organizzatore, come maestro o come fratello.. Se stai come fratello devi accettare, come e più degli altri, di accettare di essere non accolto, di essere disprezzato, di essere perseguitato. L’ho sperimentato in Argentina. All’inizio, quando mi sono messo con i boscaioli, i capisquadra e l’aristocrazia del luogo erano molto contenti di avere un prete tra di loro. Celebravo la messa, garantivo l’ordine e i “valori”. Quando, molto presto, abbiamo preso posizione e abbiamo difeso gli oppressi, ci hanno accusato, minacciato, e, per un errore di procedura, portato perfino in tribunale.

Cosa c’è che non va nella Chiesa di oggi?

È come se il centro della predicazione si fosse spostato: dal Regno di Dio alla visibilità della Chiesa, alla sua grandezza, al suo potere. Parla molto la Chiesa, scrive molto. Non si può dire che non si occupi dei poveri: mai sono state prodotte tante parole sull’argomento, mai tanti documenti. Viviamo una religiosità opulenta, anche dal punto di vista intellettuale. Sappiamo come affrontare i problemi, sappiamo come risolverli, da soli, sempre da soli, senza contare sugli altri. I poveri, chi fa più fatica, gli esuli, cosa contano per me intellettuale, per la mia teologia, per la mia pastorale? Il Vangelo è ridotto a manifestazioni rituali o metafisiche. Siamo lontani dalle situazioni reali della gente. Introducendo il mio ultimo testo, l’amico Ettore Masina ricorda un fatto che mi è accaduto alcuni anni fa. Ero da pochi giorni in un poverissimo villaggio dell’America Latina quando mi giunse una comunicazione postale. Era un notificazione della Congregazione vaticana per il Culto divino dove si disponeva che per la consacrazione eucaristica dovessimo usare solo calici rivestiti internamente di oro o d’argento. Avevamo appena celebrato la messa, come ci sembrava doveroso, nella capanna di una poverissima vedova; e naturalmente come calice avevamo usato un bicchiere scheggiato. Quella notificazione ci divertì grandemente. Fu motivo di ricreazione, di elevazione…

A volte te la prendi anche con i laici..

Mancano di audacia. Passano da un ritiro spirituale a un altro, ma poi non si interrogano sulla loro responsabilità davanti alla società. Non si può essere contro la manipolazione della vita, contro una bioetica sbagliata, e poi dichiarare valido il sistema economico che arriva a queste aberrazioni, quello che succhia il sangue dei poveri, che è la benzina di cui ha bisogno il nostro mondo troppo ricco per vivere. Vogliamo una società nuova, ma poi applaudiamo al politico di turno. Siamo troppo miopi, non siamo capaci di guardare avanti. Il laico che vive la sua responsabilità politica con autonomia, sapendo che di essa deve dar conto solo davanti a Dio, oggi è scomparso. Naufragate le ideologie, il laicato religioso è stato inglobato nella Chiesa che ne ha marcato la clericalizzazione.