Di generazione in generazione. Fede cristiana oggi. La svolta

Foto: don Tonino Bello

Settimana scorsa è morto Arturo Paoli. Il Santalessandro gli ha dedicato un’intervista che ebbi il dono di fargli un pò di anni fa. Pensando alla sua vicenda e all’impatto che ha avuto sulla storia di tanti di noi, mi è venuto da pensare: “Che generazione fortunata è stata la nostra!” Abbiamo potuto incontrare ed ascoltare Arturo Paoli e padre David Maria Turoldo, don Giuseppe Dossetti e don Tonino Bello, l’Abbè Pierre e Helder Camara, padre Ernesto Balducci e frère Roger di Taizè. Ci siamo nutriti di Bonhoeffer (ricordo ancora la profonda emozione della prima lettura di “Resistenza e resa”) e di Mounier, di don Milani e Carlo Carretto, di Maritain e Silvano Fausti, di Giuseppe Lazzati e Oscar Romero. Inoltre, abbiamo vissuto l’onda del Concilio Vaticano II: i suoi entusiasmi e le sue passioni: un dono straordinario che ci ha sostenuto anche quando, dentro la nostra comunità cristiana, il soffio del vento pareva andare in direzione contraria. E, per finire, inimmaginabile per tanti di noi, Francesco. Un papa che Parla con il vocabolario di sempre della vicenda cristiana ma raccontato attraverso una credibilità di chi si è fatto carico dell’invito – ripreso dal santo di Assisi da cui ha voluto prendere il nome – a “predicare il Vangelo e se fosse necessario anche con le parole”.

Un’abbondanza – quella della mia generazione – straordinaria: c’è da averne per sette vite! Eppure qualcosa nella trasmissione della fede cristiana pare non essere andato per il verso giusto. Lo raccontano ogni giorno le vicende dei tanti giovani che ci capita di incontrare. Lo dimostrano le ricerche sociologiche che vengono di tanto in tanto pubblicate.

UNA ROTTURA RADICALE RISPETTO ALLE GENERAZIONI PRECEDENTI

L’ultima – recentissima – dice della progressiva indifferenza dei giovani verso la fede cristiana. I segnali rilevati sono tanti. Dal milione di studenti che ogni anno scelgono di non avvalersi dell’Insegnamento della Religione Cattolica (Irc), contro i circa 500mila di venti anni fa, alle scelte riguardo ai sacramenti. I dati a disposizione di questa ricerca, curata da Lorenzo Di Pietro e pubblicata da L’Espresso, rappresentano un periodo di venti anni che va dal 1994 al 2013, primo anno del pontificato di papa Francesco. In un paese dove la quasi totalità della popolazione è stata battezzata con rito cattolico (il 97 per cento, secondo l’Annuario pontificio), i sacramenti sono sempre stati visti come un passaggio obbligato anche per motivi culturali e sociali. Ma se fino alla metà degli anni Novanta non vi era alcun dubbio che il figlio di due battezzati venisse battezzato a sua volta, nel 1995 inizia una lenta, progressiva discesa, che porta la percentuale dei battezzati nei primi sette anni di vita da un solido 90-92 per cento fino al 75 per cento del 2009. Anno in cui la tendenza si inverte, riportando i battezzati fino al 79 per cento nel 2013, comunque ben lontano dagli oltre 92 nuovi nati su cento che venivano battezzati venti anni prima.

Non basta. Occorre leggere una ricerca realizzata dall’Aied, l’Associazione italiana per l’educazione demografica, su 4000 giovani fra i 13 e i 19 anni, che ha confrontato le risposte raccolte nel 2014 con la stessa indagine compiuta nel 1986. I risultati sono interessanti e in qualche caso sorprendenti. A dichiararsi cattolico praticante è solo un adolescente su quattro, senza distinzione tra maschi e femmine, un risultato analogo a quello riguardante la popolazione adulta pubblicato nel 46esimo rapporto Censis. Rispetto al 1986 il calo è di 10 punti per le ragazze, mentre è stabile per i ragazzi. A definirsi cattolico non praticante è circa il 36 per cento sia dei ragazzi e che delle ragazze, mentre nel 1986 le percentuali sfioravano il 50. La sorpresa arriva invece da chi esprime indifferenza verso la religione. Erano in pochi nel 1986, in prevalenza ragazzi (21 per cento contro il 14 delle ragazze), mentre oggi sono il 31 per cento dei ragazzi e addirittura il 33 delle ragazze. Insomma, ci dicono che siamo ad un punto di svolta culturale, ad una vera e propria discontinuità con le precedenti generazioni. Siamo di fronte – piaccia o meno – ad un anello spezzato, ad una frattura della memoria. Qualcuno dice che è iniziata la frana, siamo ad un punto di svolta. E non bastano i numeri dei molti animatori ai CRE estivi per consolarci o per ritenerci fuori da questa provocazione. Basterebbe solamente verificare quanti di questi che – generosamente e con passione – si sono dedicati in queste settimane alla cura educativa dei più piccoli, si incontrano regolarmente all’Eucarestia domenicale o al sacramento della Riconciliazione.

CAMBIARE LO SGUARDO 

Che fare? Anzitutto serve uno sguardo realista. Guardare le cose per quello che sono. Non per quello che ci si illude che siano né per quello che oramai si teme siano diventate irreversibilmente. Per questo mi sono riletto un testo utilissimo, scritto a più mani, da studiosi che da anni, per conto dell’Ossevatorio Socio-religiososo del Triveneto, leggono, in modo rigoroso e puntuale, la religiosità dei giovani di quello specifico territorio (Castegnaro A. con G. Dal Piaz e E. Biemmi, Fuori dal recinto. Giovani, fede, Chiesa: uno sguardo diverso, Milano, Àncora, 2013). Dati alla mano, non troppo diversi da quelli elencati, chiedono, anzitutto, di “cambiare lo sguardo”. Pensare l’identità delle persone non come un dato acquisito una volta per tutte ma come un cammino che nella condizione attuale può durare tutta la vita. E può trattarsi di un percorso anche pieno di curve, zig zag, linee spezzate, fatto di allontanamenti e avvicinamenti. “Le linee rette sono dell’uomo. Dio preferisce quelle curve”, diceva Gaudì, l’architetto della Sagrada Familia. Inoltre occorre vedere i giovani non come spazi inerti, non come persone indifferenti, ma come campi di forza, come persone che vivono la tensione tra la voglia di credere e la difficoltà di decidersi rispetto al credere; tra l’attrazione che sentono per il discorso religioso (molti, nonostante tutto, lo sentono ancora) e il fascino che esercitano le letture laiche, chiuse al trascendente in quanto possono sembrare “adulte”. Quello che è certo è che siamo usciti dalla logica per cui l’istituzione gode di un riconoscimento a priori, che la Chiesa abbia una sua riconosciuta legittimità di fondo tale per cui si tratta in sostanza solo di obbedire a quello che dice (e ci si sente in colpa quando non lo si fa). Non vale più per nessuno, nemmeno per i giovani cattolici. Le affermazioni del magistero vengono sottoposte a delle valutazioni personali e si possono accettare o no. Essere usciti dal recinto, per gli autori,  vuol dire questo: siamo passati da un periodo in cui nascere in una certa zona del mondo implica diventare cattolici romani a un altro in cui si sceglie nella libertà non solo se diventarlo, ma anche le forme in cui lo si sarà. E tutto fa pensare che non sia una trasformazione passeggera.

FARE DELLE CHIESA UN GRANDE LABORATORIO. DELL’UMANO ANZITUTTO

Nelle conclusioni gli autori fanno loro un’idea che era di papa Giovanni Paolo II: fare della Chiesa un grande laboratorio della fede. Sono tre i fronti che – a loro avviso – ci interpellano di più: quello dell’intellegibilità della fede, quello della liturgia e quello della morale. Abbiamo bisogno di capire cosa pensano e forse anche di metterci in discussione. Serve rendere comprensibili i dogmi nel mondo contemporaneo, valorizzare aspetti di ritualità presenti nella cultura giovanile, capire cosa c’è in gioco, nei comportamenti dei giovani, per quanto riguarda la morale. L’urgenza, non è far ritornare al più presto i giovani nel recinto ma piuttosto è dire a tutti una parola di salvezza, che sia valida qui e oggi.

Non ce l’hanno gridato a più riprese i testimoni che abbiamo avuto il dono di incontrare?