Rapporto istat, la donna è capofamiglia: per il sociologo Bernardi la tendenza è irreversibile

RAPPORTO ISTAT, LA DONNA È CAPOFAMIGLIA: PER IL SOCIOLOGO BERNARDI LA TENDENZA È IRREVERSIBILE.

«I dati fotografati dall’annuale Rapporto Istat sulla situazione del Paese, dove risulta che in più di 2,4 milioni di famiglie, cioè il 12,9% (rispetto al 12,5% del 2013 e 9,6% nel 2008), a lavorare è soltanto la donna, sono positivi. Il Rapporto, infatti, sottolinea che la presenza delle donne nel mercato del lavoro è sempre più importante e quindi la tendenza generale è irreversibile. I motivi sono principalmente una buona preparazione scolastica, l’ingresso delle straniere, l’aumento dell’età pensionabile e la presenza di un partner disoccupato. Un altro elemento fondamentale è che con la crisi si sono persi molti lavori non qualificati ma ciò è avvenuto con maggiore frequenza nei settori dove maggiore è l’occupazione maschile, cioè nelle costruzioni e nell’industria. Al contrario le donne poco qualificate che lavorano nei servizi per la persona, sono riuscite a mantenere le loro occupazioni. Quindi sì, le donne lavorano sempre di più e quelle meno qualificate riescono a trovare più facilmente un lavoro dei loro corrispondenti uomini o mariti poco qualificati. Adesso con la ripresa economica la speranza è che anche gli uomini con minori qualifiche riescano a ritrovare una porta d’accesso al lavoro». Fabrizio Bernardi, Professore di Sociologia all’European University Institute di Fiesole, commenta così i recenti dati del Rapporto Istat, dove la notizia più rilevante è che in Italia la capofamiglia non si chiama più Mario ma Maria. «Attenzione però», puntualizza il sociologo, 45 anni nato a Bologna, che ha conseguito il dottorato di ricerca in Sociologia e ricerca sociale presso l’università di Trento, «la discriminazione tra le retribuzioni maschili e femminili aumenta nelle posizioni manageriali più alte».

In un Paese come l’Italia, dove storicamente era l’uomo a lavorare e la donna stava a casa con i figli, questo dato appare significativo. Se l’occupazione maschile dal 2008 al 2014 ha registrato una sensibile contrazione pari a 875mila occupati, l’occupazione femminile ha registrato un lieve aumento, 64mila occupate in più. Per salvaguardare la propria sicurezza economica e quella dei loro figli le donne ritengono di non potersi più affidare esclusivamente alla capacità di guadagno degli uomini, mariti o compagni?

«Sì, certo questo è uno degli elementi. L’altro aspetto è che da anni le donne hanno raggiunto in media livelli educativi superiori degli uomini. Il rischio di disoccupazione, che è sempre più frequente, e un tipo di lavoro che è meno sicuro anche per i mariti/compagni, fa diventare sempre più rischiosa la strategia di lasciare il mercato del lavoro, smettere di lavorare per affidarsi a un unico reddito. Se è aumentata l’instabilità relazionale, le unioni familiari sono meno solide che nel passato, se il mercato del lavoro è diventato più precario, è logico che la strategia di continuare a lavorare per le donne risulta vincente».

Nonostante ciò il “tetto di cristallo” che impedisce alle donne di raggiungere posizioni di vertice non è ancora stato scalfito. Infatti, secondo i dati dell’Istat il 2014 non ha portato alcun cambiamento verso la parità di genere nelle carriere manageriali. Addirittura il divario di retribuzione tra uomo e donna si accentua nelle posizioni di vertice. Perché?

«Innanzitutto c’è una penalità associata alla maternità, diretta e indiretta. Non tutte queste donne che occupano posizioni manageriali hanno figli, però nel futuro potrebbero averli e quindi possono venire penalizzate. I dati sulla discriminazione salariale nel nostro Paese sono vicini alla media dei Paesi dell’Ocse. La situazione è molto seria. In Italia, tanto per fare un esempio, è stata anche introdotta una quota di genere del 30% nei consigli di amministrazione ma il problema non si risolve solo con singole misure».

Il 32% degli oltre quattro milioni di lavoratori a tempo parziale è costituito da donne. Inoltre, i 75mila occupati esposti alla cosiddetta doppia vulnerabilità, atipici e part time involontari che si sono dovuti accontentare di un lavoro parziale, sono donne in circa due terzi dei casi. Un fenomeno quello del part time in costante crescita dall’inizio della crisi. La precarietà è diventata permanente?

«Sì, quella del part time è un’altra strategia per aumentare il reddito familiare in una situazione di difficoltà e di rischio, cioè la precarietà del marito si riflette sulle scelte lavorative della moglie. Infatti erano donne, mogli, madri che prima della crisi economica potevano permettersi di non lavorare. Peraltro il part time permette di rendere compatibile un ruolo lavorativo con un ruolo di responsabilità familiare. Oggi in Italia gli orari scolastici nelle scuole elementari e medie nell’ultima riforma sono stati ridotti, se la scuola è chiusa il pomeriggio e la madre lavora a tempo pieno come fa a gestire i propri figli? Il part time è la soluzione che permette, facendo una gran fatica perché di fatto è un doppio lavoro, di contribuire al reddito familiare e di mettere insieme la famiglia. Le donne quindi si barcamenano tra le responsabilità domestiche e quelle economiche, lo sforzo, ripeto, è doppio».

La quota di occupate continua ad essere molto bassa (il 46,8%), di 12,8 punti inferiore al valore medio europeo. L’Istat rileva anche che i tempi per trovare un’occupazione diventano sempre più lunghi. La crisi ha trasformato la disoccupazione in una “trappola” da cui è difficile uscire?

«Sì, già nell’Italia pre-crisi i tempi della ricerca del primo impiego erano molto lunghi, un lavoro che allora era a tempo indeterminato. Adesso c’è poco lavoro, ci sono lavori che non sono adeguati ai titoli di studio e le persone non sono disposte ad accettarli. Questi lavori ora sono svolti dalle persone che sono immigrate in Italia».

“La disparità di retribuzione tra uomo e donna è uno scandalo. Serve uguale retribuzione per uguale lavoro”, ha denunciato Papa Francesco durante la consueta udienza generale del mercoledì in Piazza San Pietro. “Come cristiani dobbiamo diventare più esigenti, per esempio sostenendo il diritto all’eguale retribuzione per eguale lavoro. Perché si dà per scontato che le donne debbano guadagnare meno dell’uomo?”. Un’altra dimostrazione da parte del Santo Padre del profondo rispetto per il ruolo della donna nella società che ha sempre avuto Bergoglio fin dall’inizio del pontificato?

«Sì, sottoscrivo la riflessione del Santo Padre e l’importanza di ciò che ha detto Bergoglio. Il Papa ha sempre avuto una particolare attenzione per la disuguaglianza non solo di genere. Un messaggio chiaro e importante che dimostra la grande apertura mentale di questo pontefice. Una frase straordinariamente moderna quella di Papa Francesco che sarebbe bello ascoltare anche da un uomo politico».

Essere laureati riduce la probabilità di restare disoccupati, in Italia il livello di istruzione si sta alzando: il 36,5% ha un diploma, il 12,7% una laurea, dato che sale al 13,5% per le ragazze. Tra i più giovani, il divario nella preparazione, vede favorire le seconde. Lei sostiene che non è più l’istruzione ma la famiglia il vero ascensore sociale. Per quale motivo?

«No, la scuola è sempre un ascensore sociale, quello che non possiamo chiedere alla scuola è di essere l’ascensore sociale meritocratico, cioè l’istituzione che crea la meritocrazia e su cui fondare un’idea di società meritocratica. La maggiore disuguaglianza è nelle opportunità educative, cioè nei risultati scolastici che variano a seconda della famiglia di origine. Fra i giovani tra i 30 e i 40 anni, il 60% dei laureati ha genitori laureati, il 15% ha genitori con la licenza media. È una disuguaglianza per classe sociale. Buona parte di questa disuguaglianza si produce tra gli studenti che hanno scarso rendimento scolastico. Tra gli studenti non bravi, quelli di classe sociale alta continuano a studiare perché la famiglia ha le risorse economiche, sociali e culturali per navigare nel sistema educativo, cioè i genitori riescono comunque a farli studiare. Gli studenti non bravi che provengono da una classe sociale bassa smettono di studiare. Tra gli studenti bravi, tra quelli che si laureano con il massimo dei voti se qualcuno arriva a livelli altissimi, c’è un bonus, un vantaggio associato alla famiglia di origine. Secondo i dati di AlmaLaurea, fra i laureati con la stessa laurea e voto, chi è figlio di imprenditori e dirigenti guadagna in media 150 euro in più rispetto ai figli di operai con la medesima laurea e voto».

Secondo la “Curva del Grande Gatsby” (rapporto tra disuguaglianza e mobilità sociale intergenerazionale), chi nasce povero avrebbe poche speranze di cambiare il proprio status. Quindi là dove la disuguaglianza sociale aumenta, la mobilità sociale tende a diminuire?

«Sì, questo è il messaggio preoccupante per chi aderisce all’idea che in una società dovrebbe contare quello che si è o quello che si fa e non da dove si proviene, che cosa facevano i nostri genitori. Tanto maggiore è la disuguaglianza, tanto più contano le origini sociali nel definire le possibilità e di destini di una persona».

 

 

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