La mensa dell’opera Opera Bonomelli: la vita ricomincia a tavola

Fin dai primi del ‘900 l’Opera Bonomelli, proprietà del Comune di Bergamo, gestisce la struttura del Nuovo Albergo popolare che accoglie le persone senza dimora, offrendo una risposta immediata come servizi di vitto e alloggio. Negli ultimi anni c’è stata un’ulteriore evoluzione significativa del fenomeno di povertà, come spiega Vincenzo Volonterio, pedagogista, educatore e responsabile dei volontari del Nap: “Il disagio è sempre più radicato nella comunità locale, nella città e nei paesi, complice anche l’acuirsi della crisi economica. La soglia tra una persona che ha perso il lavoro e va incontro a una crisi e quella che inizia un percorso di discesa verso il degrado è molto labile. Chi si trova in una situazione di marginalità grave, spesso ha subito anche la perdita di relazioni con la famiglia o ha problemi di dipendenza, o psichici: insomma una multi problematicità che porta ad affrontare un profondo dolore”. L’Opera Bonomelli conta circa 40 dipendenti, la metà dei quali ha una professionalità specifica come Vincenzo: educatori e psicologi che affiancano i circa 25 volontari impegnati su servizi interni ed esterni. Spiega Vincenzo: “I volontari, con la loro gratuità, sono la testimonianza della volontà di mettersi a completa disposizione degli altri: essi creano una rete di legami e relazioni che non sono connotati dalla professionalità, ma che si rivelano altrettanto preziosi perché rendono più efficaci le attività terapeutiche, anche solo grazie a un saluto o a un piccolo gesto di aiuto”. 75 persone dormono qui, la mensa offre circa 100 pasti al giorno a pranzo e 90 a cena. “Per queste persone- spiega Vincenzo – venire in mensa significa anche mantenere dei legami. Può bastare un saluto o un sorriso per stringere relazioni a diversi livelli: ci sono coloro che hanno condiviso esperienze, persone che non si sono scelte, che magari hanno anche affrontato le difficoltà della convivenza, ma che proprio da queste vicissitudini sono uscite arricchite”. Un miglioramento netto della qualità della vita, della capacità di intrecciare relazioni che possono durare nel tempo e aiutare le persone a sollevarsi e andare avanti, nonostante tutto. Testimonianza tangibile di questo è l’atmosfera che si respira durante il consumo dei pasti: distesa e spensierata. Gli ospiti sono soprattutto uomini, tanti italiani, è mezzogiorno e mezza e i tavoli sono quasi tutti occupati. Chi affonda il mestolo nella grande pentola colma di pasta è una suora, ma a guardarla non si direbbe, è una cuoca che elargisce sorrisi pieni di calore come le fumanti portate che passano sotto le sue mani. Un ragazzo sulla trentina -ha tutta l’aria di essere indiano- sta facendo scorrere il suo vassoio sul piano davanti alla cucina, dopo aver scelto un primo e un secondo piatto. Mi rivolgo a lui chiedendo se posso scattare una fotografia al suo pranzo inquadrando solo le sue mani e lui sorridendo mi dice: “Sì, certo, nessun problema”. Dopo il mio scatto, prima di dirigersi verso il tavolo, esclama porgendomi la mano: “5 euro!” e scoppia in una fragorosa risata. Rimango attonita una frazione di secondo per poi scoppiare a ridere anche io. Sono bastati pochi istanti, uno scambio di battute e una risata complice per aprire un canale di comunicazione e farmi pensare: “Basta davvero poco per sentirci più vicini e solidali”.

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