Gesù deve fare i conti con l’incredulità dei suoi ascoltatori. L’eterno scandalo di un Dio troppo vicino

In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?» (Vedi Vangelo di Giovanni 6, 41-51. Per leggere i testi di domenica 9 agosto, diciannovesima del tempo ordinario, clicca qui)

Gesù ha compiuto il miracolo strepitoso della moltiplicazione dei pani e la gente, stupefatta per quello che è avvenuto, vuole farlo re. Allora scappa sul monte, da solo, a pregare. I discepoli passano all’altra riva e Gesù li raggiunge, comminando sulle acque. La gente se ne accorge e va a cercarlo, a Cafarnao. Qui lo trova infatti e incomincia tra la gente e Gesù un lungo dibattito.

LA DISCUSSIONE OLTRE IL LAGO A CAFARNAO

Gesù esordisce affermando solennemente che bisogna credere, affidarsi a Dio e che il vero cibo che dà la vita eterna, il pane disceso dal cielo, è lui, il figlio. Era quello che avevamo letto nel vangelo di domenica scorsa. Di fronte a quelle affermazioni, la gente non capisce e “mormora” contro di lui. Così aveva fatto Israele contro Mosè nel libro dell’Esodo. Anche là Dio aveva regalato a Israele la libertà dall’Egitto, ma il lungo peregrinare nel deserto aveva stancato e la gente, appunto, aveva mormorato. “Arrivarono a Mara, ma non potevano bere le acque di Mara, perché erano amare. Per questo erano state chiamate Mara. Allora il popolo mormorò contro Mosè: «Che berremo?»” (Es 15, 23s).
La mormorazione però non è genericamente contro quello che Gesù ha detto, ma contro le sue pretese. Egli vorrebbe essere un cibo divino, celeste, dono di Dio. Ma come è possibile? Gesù è il figlio di Giuseppe per i suoi ascoltatori che conoscono le sue parentele e che non riescono a capire come un uomo così banalmente conosciuto possa essere il pane disceso dal cielo. Ritorna, dunque, lo scandalo di fronte all’umanità del Verbo, la sua origine terrena, qui svelata soprattutto dall’appartenenza alla sua famiglia.

IL FIGLIO DEVE PREDERCI PER MANO

Di fronte a quella obiezione, Gesù non dice che la conoscenza “naturale” non serve. Dice soltanto che non basta. Bisogna che il credente si lasci “attirare” dal Padre. La vera conoscenza di Gesù è un dono di Dio, dunque, e non una pura “impresa” dell’uomo. Tutto viene da Dio e tutto prende il suo significato ultimo soltanto da lui. I suoi ascoltatori avevano cercato il pane che toglie la fame e non avevano capito il pane disceso dal cielo. Se vogliono arrivare a Dio devono come lasciarsi prendere per mano dal Figlio che porta a Dio: è lui infatti il rivelatore, la via verso il Padre. Al di fuori del Figlio si rischia la strada sbagliata e, ancora una volta, si rischia di non trovare il pane che dà la vera vita. La manna stessa era solo segno di un altro cibo, è stata essa stessa un cibo passeggero. Per avere stabilmente la vita bisogna mangiare un altro cibo. “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Gesù parla di “carne”, dunque, che è l’essere umano nella sua interezza, ma anche nella sua fragilità: Gesù dona il suo corpo, il suo corpo, debole. Ma questa debolezza – si lascia prendere, uccidere infatti – è segno di un dono, di un amore senza fine: è vita donata al mondo. Questa, questa soltanto è la via giusta da percorrere.

IL PANE E L’ACQUA IN PIENO DESERTO

Nella prima lettura si racconta del profeta Elia che fugge dalla regina Gezabele che lo vuole uccidere. È sfiduciato. Non ha più nessuno su cui appoggiarsi. Eppure, improvvisamente, un angelo, dunque Dio stesso, si scomoda per lui. E proprio là dove non c’è nulla, nel deserto, trova la cosa più impossibile da trovare: l’acqua.
In perfetto parallelismo con l’atteggiamento di Elia stanno le “mormorazioni” degli ascoltatori di Gesù, nel Vangelo, che rifiutano il dono di Dio, che non comprendono il senso di quello che lui fa. Quello che Dio fa è, dunque, il pane in mezzo al deserto, l’angelo vicino a noi. Non riusciamo a capire che si tratta di Dio perché Dio – secondo noi – non dovrebbe interessarsi del pane oppure pensiamo che il pane di Dio non riguarda la nostra vita. E così Dio continua a sorprendere. È l’eterno problema del Dio troppo vicino. È il caso di Gesù. Ma non è il figlio di Giuseppe?
È anche l’eterno, continuo caso della Chiesa dove, in aggravante, c’è che tutti noi che facciamo parte della Chiesa non siamo perfetti come il Figlio dell’uomo, ma imperfetti come semplici figli di uomini. E con noi lo scandalo aumenta e aumenta la fatica della fede. Eppure Dio mi parla così e se non mi parlasse così non mi parlerebbe per nulla. La sua “condiscendenza” verso di noi diventa scandalo, ma attraverso quello scandalo dobbiamo sempre passare. Altrimenti rischiamo di non incontrarlo più.