Paolo Baraldi: portiamo la street art fuori dal ghetto. L’arte è fatta per gli spazi pubblici

“L’arte dev’essere vicina alla gente”: è questa l’idea che anima il lavoro di Paolo Baraldi, artista poliedrico, molto attivo sui fronti della street art e in generale dell’arte urbana. Tra i suoi ultimi lavori, l’installazione sulla gratitudine nel passaggio Patirani riaperto per la festa di Sant’Alessandro. Un lavoro che ha coinvolto attivamente un folto gruppo di ragazzi dei Centri ricreativi estivi degli oratori bergamaschi.

“E’ stato un lavoro lungo – racconta Paolo Baraldi (aka il Baro) – l’ho iniziato a giugno e per realizzarlo ho incontrato moltissime persone. Questo è uno degli aspetti più interessanti di questo modo di lavorare: confrontarsi, parlare con tanta gente, in contesti anche lontani da quelli abituali. Negli oratori per esempio ho trovato molti preti che si danno da fare e bambini di tutti i colori. Mi ha entusiasmato risvegliare in qualcuno di loro il pensiero, spesso lasciato da parte, di essere grati e poi poterli ritrarre in una forma diversa della sola fotografia. Avevano il compito di scrivere per che cosa erano grati, e alcuni dei loro messaggi sono stati videoproiettati in Piazza Vecchia. Anche a me così è stato reso possibile essere grato per questa possibilità”. Il lavoro stesso, insomma, è stato una traduzione della gratitudine. “Mi è sembrato – osserva il Baro – che chi osservava il lavoro ne abbia colto l’immediatezza e l’onestà. Parlava da solo. E non c’era bisogno di nessuna giustapposizione, nessuna firma, tantomento la mia: in un’occasione così l’artista può farsi da parte”.

Paolo Baraldi ha seguito un percorso particolare: prima la laurea in Scienze dell’Educazione, poi il diploma all’Accademia Carrara. Prima i graffiti, poi un’apertura a tutto tondo ai linguaggi espressivi dell’arte contemporanea.

“Mi concentro sugli spazi pubblici – spiega – con affissioni, murales, installazioni di vario genere e mi muovo il meno possibile nel sistema di gallerie o spazi privati, a meno che non ci sia comunque la possibilità di confrontarsi con pubblico ampio. Per me l’arte dev’essere così, vicina alla gente, con una fruizione più ampia possibile. Ci dev’essere un dialogo diretto. Vorrei che si ripristinasse questo rapporto che è andato lentamente smarrito nella storia dell’arte dopo il Rinascimento. I graffiti e la street art vanno in questa direzione, molto diversa da quella presa dall’arte privata e di sistema”.

Mettere l’arte a disposizione di tutti negli spazi pubblici è – prosegue l’artista – “una forma di educazione visiva. Così le persone non hanno a che fare soltanto con messaggi che invitano all’acquisto oppure al voto. Le opere di strada stimolano il pensiero, spingono a osservare gli spazi con occhi diversi. Senza contare che interventi artistici possono aiutare anche a mitigare l’impatto di strutture non piacevoli. Bergamo sta facendo grandi passi in avanti in questo campo”. Ma si può fare ancora molto, e tanti sono gli interventi “difficili da digerire dal punto di vista visivo. Negli ultimi trent’anni non si è costruito benissimo”. Di recente Paolo Baraldi ha realizzato un graffito al rondò delle valli e un dipinto e una delle dieci colonne dell’articolato intervento sotto il cavalcavia di Boccaleone. Le sue opere spesso sono temporanee: “Non sono attaccato a ciò che faccio e alla firma, credo nella caducità delle opere. Non è un problema se dopo un po’ vengono distrutte. E’ giusto che gli spazi si rinnovino e che ci sia spazio per altri interventi e altri artisti. Questo non mi turba. Ho iniziato il mio percorso artistico con i graffiti a metà degli anni Novanta per abbracciare tante tecniche diverse, poi mi sono dedicato a lavori di pittura e altro che però finivano in posti che non andavano bene per me. Così ho ripreso a lavorare in strada. Gli anni della formazione alla Carrara sono stati fondamentali, mi hanno permesso di misurarmi con il mondo accademico, mi hanno offerto tante occasioni di confronto”.

Il modo di lavorare di Paolo Baraldi è coerente con il suo percorso: “Questo tipo di arte – chiarisce – ha un’importante funzione sociale, perfino politica, perché implica una presa di posizione, perché la sua dimensione pubblica è forte. Ma se ci pensiamo qualche secolo fa l’arte si affacciava direttamente sugli edifici e sulle chiese e aveva una funzione educativa, raccontava storie, permetteva alle persone di imparare qualcosa di più sul mondo, sulla vita, sulla religione”.

L’arte di strada viene spesso considerata “di periferia”: “A lungo ha sofferto questa etichetta di marginalità, ma ora questa definizione dev’essere superata e vedo che anche a Bergamo questo sta accadendo”. Non a caso la sua ultima installazione è arrivata proprio nel cuore della città, in Piazza Vecchia: “Tutta la città può accogliere questo tipo di arte. In altri Paesi europei avviene già da tempo. Qui si potrebbe osare di più nel centro piacentinano. Ci sono zone che non si possono vedere e le opere d’arte generano senso di appartenza”.

Molti i progetti in cantiere per “il Baro”: “Sto lavorando per riunire in un libro i lavori degli ultimi 10-12 anni, e nel 2016 probabilmente porterò le mie opere in una mostra all’estero. Ma anche nella routine quotidiana, come insegnante al Patronato San Vincenzo, all’accademia della grafica, ho sempre occasioni di lavoro stimolanti e importanti. In questo tipo di arte a volte il processo conta di più del prodotto finale, e l’artista per accettare completamente il gioco deve superare il proprio ego, ma gli esiti sono molto felici, ripagano di tutto”.

 

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