La tragica bellezza del volto del Crocifisso. Il gesuita Dall’Asta a “Molte fedi”

Immagine: Claudio Parmiggiani, corona di spine (particolare)

Nelle catacombe romane, è ritratto come Buon Pastore; in un mosaico di San Vitale, a Ravenna, ha le sembianze di un adolescente imberbe, seduto su una sfera azzurra che simboleggia l’universo; in un celebre dipinto di Holbein il Giovane, invece, vediamo il suo cadavere nella tomba, prima della resurrezione (riferendosi proprio a questo quadro, un personaggio di Dostoevskij esclama che «più d’uno, guardandolo, può perdere la fede»).

In particolare, sarà incentrata sui diversi modi con cui l’arte ha rappresentato il Cristo crocifisso la relazione che il gesuita Andrea Dall’Asta terrà giovedì prossimo alle 20 e 30 nella chiesa di Paderno di Seriate, in via Po; l’incontro, che avrà per titolo «La Croce nell’arte: un percorso attraverso i secoli. Una rilettura teologica», rientra nel programma di quest’anno della rassegna delle Acli «Molte fedi sotto lo stesso cielo» (ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria; controllare sul sito www.moltefedi.it se vi siano ancora posti disponibili).

Padre Dall’Asta dirige la galleria d’arte ed è responsabile del settore cinema del Centro San Fedele di Milano; recentemente, ha pubblicato con l’editrice Àncora un bellissimo volume, La Croce e il Volto. Percorsi tra arte, cinema e teologia (pp. 240 con numerose illustrazioni a colori, 30 euro).

La figura di Cristo, evidentemente, costituisce un tema centrale nella storia dell’arte; eppure, il rapporto dei credenti con questo volto è caratterizzato da una tensione: si vorrebbe poter “fissare” i lineamenti di Gesù e lui, invece, si sottrae, sfugge all’abbraccio della Maddalena e alla vista dei discepoli, ascende al cielo…

«Il volto di Cristo ha assunto un’importanza fondamentale in tutta la storia dell’Occidente. Non è possibile pensare al ritratto rinascimentale, a quello contemporaneo e agli ormai notissimi selfie scattati col cellulare, senza fare riferimento al volto di quell’uomo nato circa duemila anni fa, così come è rimasto impresso in un lenzuolo di lino, la Sindone. In questo senso, il volto di Cristo costituisce il “mito fondatore” alla base del ritratto moderno; e sappiamo bene che parlare di ritratto significa parlare di soggetto, di individualità, di persona – in una parola: di modernità. Tuttavia, il volto di Gesù non è rappresentato in modo univoco: se nel mondo bizantino assume i tratti ieratici del Pantocratore, in quello rinascimentale abbiamo davvero il  “ritratto” di un viso pienamente umano. Con il dono dello Spirito, la storia di Dio diventa storia dell’uomo, e nel volto di Dio l’uomo può riconoscere il proprio. Questo può accadere anche per il fatto che la figura di Gesù si sottrae a una visione diretta, immediata».

Vi sono religioni che vietano di raffigurare il divino; lo stesso cristianesimo è passato attraverso fasi di “iconoclastia”, in cui le immagini sacre erano messe al bando. Come è stata superata questa proibizione?

«Nel mondo ebraico, Dio non si mostra mai all’uomo, ma si rivela al suo popolo, Israele,  essenzialmente attraverso la parola. Di certo, nelle scritture ebraiche, si avverte il timore che la visione del volto dell’altro si trasformi in possesso, manipolazione, idolatria, mentre Dio si pone al di là di ogni possibilità di “cattura”. Dio è sempre percepito nella distanza e nella differenza, è pura trascendenza e sfugge a qualunque definizione che lo vorrebbe ingabbiare in un concetto, o in una rappresentazione. Mosè desidera conoscere il volto di Dio; tuttavia, gli sarà concesso di vedere solo il suo dorso. La prima tendenza che si afferma nella Bibbia è dunque aniconica. Con l’incarnazione, tuttavia, Dio ha finalmente un volto, si rende visibile in un uomo: Gesù, il Cristo, il Logos. La Parola di Dio si fa carne».

Si fa dunque visibile.

«Si tratta di una rivoluzione antropologica e teologica senza precedenti. Dio non abita più in un’assoluta trascendenza ma si cala nella nostra realtà quotidiana, nella storia dell’uomo. In Cristo, Dio si immerge nel mondo. La “legittimità dell’immagine” affonda le sue radici negli stessi testi fondativi del cristianesimo. Cristo è l’icona di Dio. Il Logos invisibile, il “senso” di tutta la creazione, si concentra in un “corpo”, diventando sarx, “carne”. Dalla “Parola” si può risalire al volto di chi la pronuncia. In Cristo, la Parola di Dio può essere vista. Il cambiamento è radicale. Il Dio altro, lontano, si fa Dio prossimo, vicino all’uomo. Questo mostrarsi di Dio agli uomini è così all’origine di una sua rappresentazione in immagini che consentono di prolungare l’esperienza dei primi testimoni diretti dei gesti e delle parole di Gesù. Nell’esperienza cristiana, perciò, il “vedere” diviene fondamentale».

Il suo volume La Croce e il Volto  – ma anche la relazione che lei terrà a Seriate – ha come tema le diverse raffigurazioni del Crocifisso, nel corso della storia cristiana.

«La Croce è un soggetto complesso, difficile, in quanto è generalmente studiato in maniera specialistica dai biblisti, dai teologi o dagli storici dell’arte. È estremamente difficile attuare una sintesi personale tra queste prospettive. Nel mio libro invece – questa è la novità – l’argomento è affrontato in maniera interdisciplinare, vale a dire collegando strettamente arte, cinema, filosofia, antropologia e teologia. Il volume ha quindi il pregio di offrire una visione sintetica della tematica della Croce in una continuità tra passato e presente, andando alle origini di alcune rappresentazioni che ancora oggi alimentano il nostro immaginario. Inoltre, La Croce e il Volto si presenta come un testo di meditazione, di spiritualità, con continui riferimenti ai testi biblici».

Vogliamo rapidamente menzionare alcuni passaggi e artisti, in una storia ideale delle raffigurazioni del Crocifisso?

«Partirei dalle prime rappresentazioni della “Croce gloriosa”, senza il Crocifisso, tipiche della tradizione paleocristiana, per poi considerare alcune splendide immagini della storia successiva dell’arte occidentale, da Cimabue a Giotto, da Masaccio a Piero della Francesca, da Bellini a Velasquez, giungendo quindi ad alcune raffigurazioni contemporanee, come quelle di Chagall, di Bacon, di Rouault. Nel mio libro, un’attenzione del tutto particolare è rivolta all’aspetto della “corporeità”, in quanto il corpo di Cristo è sempre stato il punto di riferimento con il quale il fedele è invitato a identificarsi. Inoltre, ho aggiunto alcune analisi – del tutto inedite – di opere sorprendenti di celebri artisti contemporanei, come Jannis Kounellis, Mimmo Paladino, Ettore Spalletti, Claudio Parmiggiani, Nicola de Maria, Marcello Mondazzi, Hidetoshi Nagasawa. Un’intera sezione è infine dedicata al cinema, la grande arte del Novecento, con riferimenti a film di Pier Paolo Pasolini, di Federico Fellini, di Andrej Tarkovskij, di Mel Gibson, di Gabriel Axel, dei fratelli Dardenne, di Clint Eastwood …»

Nel nostro tempo, come si può tornare a parlare della particolarissima «bellezza» propria del Crocifisso, in quanto «uomo dei dolori»? 

«Oggi occorre leggere con modalità nuove il valore “provocatorio” dell’evento della Crocifissione. Spesso, la bellezza di Cristo sulla croce è stata interpretata nei termini della Gloria, di una sovrumana bellezza di Dio; in questa prospettiva, il corpo di Gesù si mostra eroico, atletico, secondo forme mutuate dalla tradizione greco-romana: pensiamo anche solo al Risorto di Piero della Francesca, a Sansepolcro. Dall’altro lato, c’è una visione completamente diversa, tipica della tradizione artistica nordeuropea. Pensiamo, in questo caso, ad alcune opere di Grünewald: Gesù si mostra qui nell’orrore di un corpo lacerato, sfigurato, ferito, piagato. Nel Cristo morto di Holbein, questo corpo appare quasi in putrefazione… L’accento cade sull’idea che, nel Crocifisso, Dio abbia preso su di sé il male del mondo, un male divenuto perciò visibile in tutta la sua oscenità. In modo del tutto differente rispetto alle splendide rappresentazioni di Raffaello o di Michelangelo, la bellezza si rivela allora nella kenosi, nel dono che Dio fa di se stesso, rendendo possibili per l’uomo dei cammini di redenzione e di liberazione. È interessante notare come nei migliori esempi di arte contemporanea emerga soprattutto quest’ultima visione. La bellezza di Dio è allora sempre più interpretata come un appello rivolto all’uomo perché egli si assuma la responsabilità etica della propria vita, nelle forme della carità, dell’offerta di sé per i fratelli».