Expo, perché portare i bambini? Per mostrargli l’immagine di un futuro possibile, e seminare (bei) sogni

All’inizio del film “Tomorrowland” Frank Walker, una decina d’anni e occhi splendenti, se ne va da solo all’esposizione universale di New York 1964 per presentare il prototipo di una sua invenzione, il jet pack. All’Expo di Milano, in questi giorni, i teenager portano il bastoncino dei selfie, di quelli sì, se ne vedono parecchi. E ce n’è qualcuno con l’aria annoiata, che preferisce giocare a calcetto e fare scherzi ai compagni sui prati di Cascina Merlata, tirandola lunga prima di decidersi e mescolarsi alla folla.
E che folla: un incubo anche per i più motivati. Le code si allungano in misura inversamente proporzionale ai giorni che mancano alla deadline del 31 ottobre: il popolo di quelli dell’ultimo momento è il più numeroso e non conosce distinzioni di nazionalità, cultura, età, sesso e religione. Stando in fila è raro che capiti di guardarsi negli occhi, ma se accade, in questi ultimi giorni dell’esposizione universale milanese, si capisce subito di avere qualcosa in comune: tutti ritardatari, e questo in fondo potrebbe rendere più umani, più tolleranti, nei limiti, ovviamente. Oppure no. La sensibilità diventa più acuta se devi provare a proteggere una classe di ragazzini della scuola primaria in gita, come è capitato a me: quasi nessuno capisce perché bisogna dargli la precedenza (possono perdersi, e la folla è spaventosa), perché non va bene urtarli e spintonarli fino a farli cadere (sono piccoli, si fanno male), perché è giusto farli entrare senza farli aspettare troppo (sono bambini, come possono sopportare ore di coda, già faticose per gli adulti?). Cose facili, in teoria, difficili però in pratica, soprattutto per chi (tutti) ha fretta  e vuole “mangiare tutto, per forza e a tutti i costi”, senza neanche preoccuparsi della mescolanza dei sapori. Mi è capitato di sentire adulti molto distinti commentare stizziti: “Ma perché portano i bambini?”. La (mia) risposta è molto semplice: non solo Expo è uno spettacolo affascinante per tutti, interattivo, ad alto contenuto tecnologico, spesso pensato apposta per coinvolgere i più piccoli (mi sento di lodare, tra i tanti “kids-friendly”, il principato di Monaco) ma offre, nei suoi padiglioni pieni di bellezza (pure ammettendo l’ambiguità e le contraddizioni), l’immagine di un futuro possibile che ci piace molto, fatto insieme di tradizione e innovazione, rispetto per l’ambiente e la varietà delle culture, sostenibilità, cibo per tutti. Un futuro diverso, lontano dalla paura, dalle fatiche, dal grigio cupo di questi tempi. Questo può catturare il cuore di un bambino, può restargli dentro, come accade al Frank Walker del film, può diventare un progetto da realizzare. Ecco perché seguendo gli sguardi stupiti dei ragazzini e guardando le piccole mani tese sugli steli a led del padiglione dell’Azerbaijan, fiori eleganti e delicati, che a sfiorarli si illuminano, fanno sentire il canto degli uccelli ed evocano le immagini di paesaggi sconfinati, nonostante tutto – nonostante i piedi doloranti, qualche livido per gli scontri ravvicinati, la tensione di mantenere le condizioni minime di sicurezza – una piccola scossa nel cuore la sentiamo: è l’eco di un sogno che è anche nostro, e che vogliamo alimentare e far volare, anche dopo Expo.