Renzi, la sinistra e la “mutazione genetica”

Foto: Corradino Mineo, l’ultimo “fuoruscito” dal PD

CORRADINO MINEO LASCIA IL PD 

L’uscita del sen. Corradino Mineo dal Gruppo PD al Senato era minacciata da tempo. Già noto alla cronaca per essersi rifiutato di versare la sua quota al partito, giustificandosi con la diminuzione di introiti subita nel passaggio dalla RAI al Senato – oh, indigenza! -, Corradino Mineo è nipote di Mario, storico esponente dell’intellettualità e della politica palermitana, che ha attraversato il PCI, il PSI, la sinistra extraparlamentare e che, alla fine, ha fondato un proprio gruppo politico, denominato Praxis, dotato di Rivista politica omonima, sciolto nel 1983. Corradino fu tra i fondatori della Lega degli studenti rivoluzionari di Palermo e del Gruppo Praxis a Torino. Insomma: ordinarie vicende della stagione del ’68, sempre alla ricerca di una sinistra nuova, più radicale rispetto a quella storica.

L’ACCUSA DI “MUTAZIONE GENETICA”

A volte le storie hanno una lunga sotterranea durata. E pare essere questo il caso. La motivazione fondamentale del lungo addio è quella della mutazione genetica che il PD starebbe subendo ad opera di Renzi. Tutti i fuoriusciti e i fuoriuscibili muovono questa accusa, emettono questo giudizio inappellabile. In biologia, per mutazione genetica si intende una modifica permanente del genoma, che può portare anche alla modifica del fenotipo. È un processo necessario: se una specie non evolve, scompare; e l’evoluzione è resa possibile dalla mutazione genetica. Trasposta in politica, che significa l’accusa? Che il PD di Renzi non è più un partito di sinistra. Donde la necessità di costruire un nuovo polo/partito di sinistra. Come già a partire dagli anni ’60, si tratta di assemblare pezzi “rivoluzionari”. L’impresa si prospetta in salita. Per capirne le difficoltà, conviene esplorare più a fondo le ragioni di quel giudizio tranchant. Non pare che Renzi sia giudicato un contro-rivoluzionario, in nome del “bisogno di comunismo”, della socializzazione dei mezzi di produzione, della dittatura del proletariato. No, Renzi sarebbe semplicemente preda di conati autoritari, sul piano delle politiche istituzionali, e subalterno al liberismo selvaggio, sul piano delle politiche economiche e sociali.

LA REPUBBLICA DEI PARTITI

Qual è la metafisica per niente occulta che sta dietro questi giudizi? In primo luogo, un’idea di Repubblica, qual è uscita dalla Costituente e dalla Costituzione del 1948. È la Repubblica dei partiti. Tra la società civile ideologicamente divisa e lo Stato a pezzi dall’8 settembre, i partiti sono stati gli incubatori della ricostruzione del Paese. In cambio hanno occupato società civile e Stato. I partiti, cioè associazioni private, organizzate per oligarchie cooptate. Il Parlamento è la loro arena. Il governo è un puro purissimo accidente; se ne cambia uno ogni nove mesi. Riequilibrare rappresentanza e governo è il compito che la Costituzione ha lasciato inevaso e che, dopo ben tre Commissioni istituzionali e gruppi di lavoro, sta incominciando ad accadere. Senza governi stabili, il Paese viene parassitato dalla giungla delle corporazioni. Nella repubblica dei partiti al PCI è toccato un grande ruolo, che ha funzionato come legittimazione, nonostante il fattore K (e cioè l’emarginazione del Partito Comunista per il suo legame con l’Unione Sovietica e il conseguente mancato  ricambio delle forze politiche). Per tutta una generazione politica, di origine PCI e extraparlamentare, questa è la democrazia. Modificare questo assetto, dare l’ultima parola ai cittadini nella scelta del premier significa andare verso la dittatura.

DITTATURA E LIBERISMO SELVAGGIO

E che dire del liberismo selvaggio? Di questo nuovo spettro che si aggira per il mondo? Capitale e lavoro devono stare sui fronti opposti della lotta di classe. Il partito della sinistra deve essere il partito degli operai, dei lavoratori del pubblico impiego. Insomma: il partito della CGIL. Tutti costoro, fuoriusciti e fuoriuscibili, oggi pensano ad una nuova forza “socialdemocratica”. La cattiva memoria storica ha fatto loro dimenticare che la socialdemocrazia – peraltro già imputata sprezzantemente da Enrico Berliguer di mutazione genetica rispetto al genotipo originario, quello comunista – è quella che a Bad Godesberg del 1959 rinunciò al marxismo e alla lotta di classe. Nel frattempo, già negli anni ’90, fu costretta ad una nuova mutazione genetica con la Neue Mitte –il Nuovo Centro – di G. Schröder e il New Labour di T. Blair. E qui, in effetti, sta tutta la questione: la storia spinge le persone e i soggetti collettivi – civili, sociali, politici – alla mutazione genetica quale condizione per continuare a camminare nella storia del mondo. Carlo Rosselli l’aveva già individuata, profeta inascoltato, nel 1930: socialismo liberale, cioè primato della libertà sull’uguaglianza, primato della società civile e della persona sullo Stato. Pio XI lo definì “subsidiarii officii principium”, principio di sussidiarietà. Che oggi cattolicesimo liberale e sinistra liberale si incontrino attorno a Renzi non è casuale. Né lo è che un impasto di nostalgie, di difesa di piccoli privilegi e di grandi oligarchie, di dogmatismo conservatore, del quale Mineo, Fassina, Civati, Cofferati, D’Alema, Bersani sono i rappresentanti più noti, si opponga a quel progetto.