Stefano Liberti sulle rotte dei profughi: «Così l’Europa trasforma i confini in barriere e muri»

Pensando agli Stati nazionali – a questa grandiosa invenzione della modernità -, immediatamente li associamo ai «confini», alle linee nere tra le aree di diverso colore che troviamo in un planisfero politico. Ma che ne è dei confini statuali, appunto, nell’epoca della globalizzazione e delle migrazioni di massa, destinate a proseguire – afferma l’Onu – almeno fino al 2050?  Nello scorso settembre l’opinione pubblica del Nord del mondo ha sperimentato – magari anche solo per un attimo – quanto sia labile la distinzione «noi/loro», osservando le foto del corpo di Alan Kurdi, un bambino siriano di tre anni affogato dopo che il gommone su cui la sua famiglia cercava di raggiungere l’isola greca di Kos si era capovolto. Un analogo senso di sgomento lo si prova di fronte alle immagini di altri bambini, soccorsi dalla guardia costiera italiana nelle acque del Canale di Sicilia; o a quelle di centinaia di disperati che, in Marocco, tentano di dare la scalata alle barriere che circondano l’exclave spagnola di Melilla; o ancora, alle riprese girate nella “Jungle” di Calais, in cui centinaia di profughi bivaccano in condizioni inumane, ai bordi dello «Spazio Schengen», sperando di riuscire a raggiungere clandestinamente l’Inghilterra a bordo dei camion che percorrono l’Eurotunnel della Manica. Racconta queste ed altre vicende Borderline,  un videoreportage realizzato per la rivista Internazionale da Stefano Liberti, Mario Poeta, Raffaella Cosentino, Paolo Martino e Valeria Brigida (per accedere alle sei puntate, cliccare qui). Su invito della Fondazione Serughetti – La Porta e delle Acli, Liberti, che ha coordinato questo progetto volto a documentare come «le porte d’ingresso in Europa assomiglino sempre più a un fronte di guerra con sensori, telecamere termiche, radar e droni», terrà una relazione mercoledì 4 novembre alle 17 e 30, presso l’auditorium del Liceo Mascheroni (in via Alberico da Rosciate, 21/a). L’incontro, che rientra nel programma dell’edizione 2015 di Molte fedi sotto lo stesso cielo, sarà il primo di sei di un ciclo dedicato a Le migrazioni del Mediterraneo.

Allo stesso Liberti abbiamo domandato come è nato e come si è sviluppato il progetto di Borderline.
«La realizzazione del documentario, che consiste di sei brevi video di cinque minuti ciascuno, è stata resa possibile da un finanziamento della Open Society Foundation. Il nostro intento era quello di andare a esplorare i punti più “caldi” dei confini dell’Unione Europea, per quanto concerne i flussi di migranti. In realtà, la situazione cambia in tempi rapidissimi: se oggi, a distanza di pochi mesi, dovessimo ricominciare in questo lavoro, insisteremmo molto di più sull’area balcanica – tra la Turchia, la Grecia, la Macedonia e la Serbia -, perché proprio quella regione è divenuta intanto la tappa principale nel percorso dei profughi siriani verso l’Europa occidentale. Io indago da anni il fenomeno dell’immigrazione: ciò che più colpisce è proprio la tendenza ad adottare sempre nuove modalità e percorsi, nel tentativo di aggirare le misure di contrasto applicate da molti Paesi».

Tra i video di Bordeline, in una «graduatoria dell’orrore» (ci si passi la brutta espressione), il primo posto sarebbe forse occupato dalle riprese che avete girato a Calais: normalmente non si immagina che situazioni così inumane possano verificarsi in un’area del mondo caratterizzata da un notevole grado di benessere, al confine tra la Francia e la Gran Bretagna.
«Rispetto alle altre località che abbiamo visitato, Calais costituisce un caso a sé, perché rappresenta una “frontiera interna” dell’UE. Anch’io sono rimasto impressionato, constatando in quali condizioni di degrado vivano questi profughi – in un Paese tradizionalmente considerato la “culla” dei diritti umani – e i pericoli a cui essi si espongono, nel tentativo di arrivare in Inghilterra. Paradossalmente, ciò che ho visto a Calais è perfino peggio di ciò che avevo osservato nell’Africa del Nord, ai bordi del Sahara, o in altri luoghi di transito dell’immigrazione».

La “puntata” che avete girato in Turchia è impressionante, invece, per quanto concerne la macchina organizzativa degli scafisti.
«Costoro, nel settembre dello scorso anno, avevano adottato una strategia muova: in Turchia, rilevavano per pochi soldi dei mercantili quasi in disarmo, vi imbarcavano mille o millecinquecento persone, salpavano in direzione dell’Italia e poi  abbandonavano queste navi quando ormai erano in prossimità delle nostre coste. Si sono registrati una quindicina di casi del genere; alla fine del 2014 si era anche rischiato che uno di questi cargo andasse a schiantarsi contro le coste pugliesi. Noi, a Mersin – una città della Turchia meridionale –, abbiamo incontrato decine di migranti che aspettavano di imbarcarsi per un viaggio di questo tipo. L’organizzazione della tratta era particolarmente strutturata: il denaro per il viaggio – circa 6000 dollari a persona – era depositato presso un’agenzia di money transfer, che forniva ai partenti un codice; arrivato a destinazione, il viaggiatore lo avrebbe comunicato agli scafisti, perché questi potessero incassare la somma. Peraltro, noi siamo arrivati a Mersin proprio mentre quella rotta si stava chiudendo: il ministro dell’Interno Alfano,  in visita ad Ankara, aveva sollecitato un intervento in tal senso da parte del governo turco».

Ad eccezione della Germania e dell’Austria, forse, un po’ in tutta l’Unione Europea si guarda con un crescente senso di allarme al fenomeno dell’immigrazione. Dalle nostre parti, in Italia, si constata una strana ambivalenza: intervistate, le persone perlopiù dicono di non essere d’accordo con la decisione del premier ungherese Orban di erigere muri contro i migranti; però, al tempo stesso, si invoca una “linea dura”  nei respingimenti da parte delle autorità italiane.
«Anche dal punto di vista dei dati oggettivi, l’idea di dover trasformare i confini nazionali in “muri” e “barriere” non è giustificata: il numero dei migranti è in aumento, è vero, ma rimane minimo rispetto agli oltre 500 milioni di abitanti dell’UE. Da un punto di vista sociale ed economico, poi, dei Paesi caratterizzati da un crescente invecchiamento della popolazione – come quelli dell’Europa occidentale – avrebbero convenienza a concedere ospitalità a persone mediamente giovani, che in molti casi (penso per esempio agli eritrei e ai siriani) hanno dei titoli di studio e delle qualifiche professionali elevate. Eppure, l’ostilità verso chi sopraggiunge da fuori è in crescita anche in Stati, come la Repubblica Ceca, che non rientrano tra le mete né tra le tappe delle rotte dei migranti dall’Africa o dal Medio Oriente. Proprio per questo è importante, oggi, offrire all’opinione pubblica italiana ed europea autentici elementi di conoscenza sul fenomeno dei migranti e dei richiedenti asilo: è il principale rimedio contro una spirale di paranoia che attualmente pare diffondersi nel nostro continente».

Ricordiamo che il programma completo del corso Le migrazioni del Mediterraneo può essere scaricato dalla pagina internet www.laportabergamo.it ; il costo dell’abbonamento all’intero ciclo di incontri è di 20 euro (15 euro per gli studenti, per i soci del centro La Porta e per i detentori della «Card Moltefedi»); prenotazione obbligatoria, telefonando allo 035.219230 o per email, scrivendo all’indirizzo info@laportabergamo.it .