L’omicidio di Yara Gambirasio. Il processo: l’impeccabile Bossetti e le faticacce dei giornalisti

Foto: L’avvocato Claudio Salvagni, difensore di Massimo Bossetti

Fra polemichette e testimonianze tecniche, il processo a Massimo Bossetti, accusato dell’uccisione di Yara, ha ormai delineato – dopo una dozzina abbondante d’udienze – la sua fisionomia. Pur ancora lontano dalla conclusione, dibattimento finora privo di reali colpi di scena. Bene così, perché il tribunale non è un cinema. Ci sono anche i processi legittimamente ricchi di colpi di scena. Non questo, che, invece di prendere in considerazione ricostruzioni e comportamenti controversi, si gioca in buona parte su dati scientifici.

BOSSETTI UN PO’ MENO ABBRONZATO

Con le spalle al muro a causa del suo Dna individuato sugli slip e i leggins della vittima, il tutt’altro che reo confesso imputato non s’è ancora perso neanche un minuto. Abbigliamento in perfetto ordine. Basetta ben disegnata, sfumatura sul collo curata. Gli sta solo venendo meno, data la stagione, la fedelissima abbronzatura estiva, effetto delle sedute nel cortile del carcere di via Gleno durante le ore d’aria. Imperturbabile, in linea di massima. Unica, educata reazione, quando un investigatore ha detto che, al momento della cattura (mentre in cantiere stava lavorando), tentò di scappare: “Non è vero”. Bossetti continuerà così fino a quando – per ultimo – prenderà la parola, rispondendo alle contestazioni del pubblico ministero. E, se una svolta accadrà, quello sarà il momento. Tutti si chiedono per quanto tempo ancora quest’uomo – detenuto da ben più di un anno, in attesa di giudizio – custodirà le sue emozioni, sia che siano le emozioni di un assassino sia quelle di un innocente perseguitato.

SEDUTE DEL PROCESSO COME LEZIONI DI BIOLOGIA

La Corte d’Assise ascolta con attenzione deposizioni talvolta assimilabili a lezioni di biologia di non automatica digestione. Diretta quanto obbligata conseguenza del Dna, tema centrale del processo. Alla difesa, la cui scelta d’affrontare a viso aperto la documentata sfida dell’accusa impone un contrattacco, non resta che tentar di movimentare la scena per mettere in dubbio indizi dati per scontati. Un’ardua strategia senza tatticismi, non avendo voluto gli avvocati imboccare una delle strade alternative previste nella fase delle indagini pur salvaguardando, naturalmente, la dichiarazione d’innocenza del cliente.
Un copione non inedito, insomma. Il famoso “filmato taroccato“, per esempio, ne fa parte. Il comandante dei Ris ha ammesso di aver riunito alcune sequenze delle 5 telecamere vicino alla palestra di Brembate, quando solo due fotogrammi sono riferibili con certezza al furgone di Bossetti, in presunta perlustrazione a pochi minuti dalla sparizione di Yara. Filmato recapitato ai giornalisti, per esigenze di comunicazione. Ma la sostanza cambia poco, essendo stata allegata agli atti dal pubblico ministero la ripresa giusta. Anche se resta il non trascurabile fatto che i giornalisti – e qui s’aprirebbe tutto un altro capitolo – sono stati strumentalizzati. Alcuni di loro, magari, consenzienti, ma pur sempre strumentalizzati.

I GIORNALISTI DEVONO CAMMINARE SULLE GINOCCHIA DEI COLLEGHI

Nota a margine, ma non troppo, la questione logistica. Evidentemente le esigenze comunicative richiamate dal comandante dei Ris non sussistono a processo in corso. La stampa è confinata in piccionaia, cioè in un ristrettissimo settore, quello quasi fuori dalla porta. Sedie su due file talmente anguste che, se uno deve uscire, non può evitare, pur in punta di piedi, di camminare sulle ginocchia altrui. I giornalisti mica sono spettatori puri e semplici. I siti richiedono un aggiornamento continuo. I colleghi televisivi sono impegnati con collegamenti in diretta. Inoltre l’acustica è scadente. Gli avvocati danno le spalle. I testi raramente depongono con voce stentorea. La materia è delicatissima. Capire una cosa per l’altra è tanto facile quanto dalle possibili gravi conseguenze. In che condizioni si dovrà lavorare in occasione delle udienze d’interesse nazionale, allorché gl’inviati saranno svariate decine?
Intendiamoci bene. Queste non sono rivendicazioni di natura corporativa. Nei confronti di una certa stampa enfatica ed aggressiva si può pure concepire una sorta di legittima difesa. I giornalisti, come categoria, forse hanno perduto considerazione (e dunque rilevanza) perché – costretti dentro il conflitto d’interessi fra la serietà dell’informazione e la sua diffusione – sono diventati meno credibili. Impertinenza e invadenza non pagano. Senza contare i commentatori nei talk show, che fanno il tifo, anziché ragionare da osservatori. Ma, se esiste pur sempre un diritto di cronaca, lo sforzo, dall’altra parte, dovrebbe almeno essere di non generalizzare.