Due donne che ballano: l’incontro di due solitudini. Applausi al debutto al Teatro Sociale

Ogni incontro, a suo modo, è un piccolo miracolo: quando guardi negli occhi un’altra persona e le permetti di guardare nei tuoi, ascolti e ti lasci ascoltare. È la strada più difficile tra le mille possibili: la fretta, l’indifferenza, i rapporti di ruolo «convenzionali». Eppure meravigliosa quando accade, quando permettiamo che accada.

È in questo piccolo spazio, in questo «eppure» che prende il largo lo spettacolo « Due donne che ballano », che ha debuttato ieri sera tra gli applausi al Teatro Sociale (ed è in scena anche stasera, ore 21), prima produzione del Centro d’Arte Contemporanea Teatro Carcano. La scelta della regista Veronica Cruciani, è evidente fin dall’inizio, da quando sul palco si accendono le luci e la grande prova delle due attrici Maria Paiato e Arianna Scommegna deve ancora incominciare.
L’appartamento in cui si svolge la vicenda è spoglio: tre pareti, l’intonaco consunto, una libreria, la cucina che si intuisce soltanto, oltre l’uscita. L’ambiente non si presenta frontalmente al pubblico ma è come «girato» di quarantacinque gradi, a raccontare, anche visivamente, una realtà marginale, una prospettiva «laterale» e per sua natura sfuggente.

In scena ci sono una donna anziana e una giovane. Entrambe un po’ sciatte, trascurate, anche se da una scena all’altra (e tre cambi di costume) il loro aspetto migliora, come se incontrarsi le spingesse a guardarsi di più, perché una fa da specchio all’altra. Entrambe sono chiuse in una solitudine amara. Si incontrano per caso, per necessità: la giovane viene assunta come badante per l’anziana. Il primo incontro è traumatico: sembra esserci un’antipatia istintiva tra loro, che impedisce di comunicare. La donna anziana non vuole una badante, vuole soprattutto dimostrare di saper provvedere a se stessa: «Mia madre è morta di Alzheimer, sai? È finita all’ospizio. Ma io non ci voglio finire, piuttosto muoio». E continua a chiedere: «Voglio sapere chi sei». La giovane si difende dietro il suo ruolo: «Lasciami fare il mio lavoro».

Nel testo bellissimo dell’autore spagnolo Josep Maria i Jornet si incontrano due diversi tipi di emarginazione: una determinata dall’età, dalla fragilità fisica, l’altra dal dolore e dall’incapacità di superarlo, dalla violenza, dall’incapacità di trovare comprensione e conforto nel mondo, così avaro di contatto umano, di vera inclusione al di là della superficie. Entrambe le condizioni sono segnate dalla precarietà, per motivi diversi. È una denuncia sociale lucidissima e profonda, così calzante per il nostro tempo, in cui è cosa rara avere il tempo di guardarsi davvero negli occhi.

Eppure. Nell’estremo paradosso ironico di questa piéce, in un coinvolgente crescendo ritmico e di emozioni, in un dialogo incalzante, sapientemente giocoso, capace di stemperare anche i momenti più drammatici (nell’interpretazione maiuscola delle due attrici), accade proprio questo: due anime disperate imparano a conoscersi, si accolgono a vicenda. Si scontrano continuamente, ma poi si ritrovano. Si sfiniscono per il desiderio di farsi del bene, facendo invece – come a volte accade – la cosa sbagliata senza volerlo. Abbandonano a poco a poco le proprie difese, fino a mostrarsi come sono, fino a svelarsi segreti inconfessabili. Fino a mostrarsi a vicenda la miseria delle loro vite, e a trovare in questo un’inaspettata, incredibile consolazione. Un dialogo densissimo che va assaporato poco alla volta, come un vino corposo e ben invecchiato, che tutto d’un fiato dà alla testa. Fino a un finale simbolico, in cui il ballo delle due donne prende una direzione imprevedibile, infischiandosene dell’insensibilità del mondo. E offrendo molto su cui riflettere.

La foto di apertura del post è © di Marina Alessi