Casa Raphael, un porto per i malati di Aids. Contro i pregiudizi, un luogo di guarigione fisica e spirituale

Per arrivare a Casa Rapahel, la comunità residenziale per malati di Aids, occorre inerpicarsi lungo i colli che collegano Bergamo a Torre Boldone, percorrendo una salita che non è solo reale, ma anche simbolica, per poi arrivare a destinazione, in via Calvarola, un luogo immerso in un’oasi di verde e di pace. E questi due elementi (la salita che rappresenta la fatica di vivere tra le difficoltà e la ricerca della serenità, interiore ed esteriore) li ho effettivamente ritrovati a Casa Rapahel, in cui oggi sono ospitate 12 persone sieropositive, di cui 10 residenziali e 2 diurne, che vengono seguite da un’équipe composta da educatori, infermieri, personale sanitario, psicologi e fisioterapisti. Il personale professionale è inoltre integrato da una decina di volontari che assolvono servizi vari e gestiscono momenti di animazione all’interno della struttura, così come è assidua, attenta e qualificata la presenza del parroco e della comunità di Torre Boldone. Il nome di questa casa-alloggio è dunque tratto dal libro di Tobia: l’arcangelo Raffaele intercede presso Dio perché Tobia guarisca dalla cecità. Così Casa Raphael è pensato come il luogo dove l’arcangelo intercede presso Dio per la guarigione fisica (ma ancor più spirituale) degli ospiti. Le origini di casa Raphael risalgono a casa S. Michele, nata nel 1989 per l’ accoglienza di ammalati di Aids: gli anni Ottanta rappresentarono infatti il periodo emergenziale della malattia, in cui chi contraeva questa malattia moriva letteralmente per strada. E quella stessa struttura nel tempo si rivelò infatti insufficiente, sia per accogliere il numero sempre crescente di ospiti, sia per la difficoltà di ordine «psicologico» di far convivere due tipologie molto diverse di ammalati, quelli autosufficienti e quelli terminali. La chiesa di Bergamo, nella figura del Vescovo, decise quindi di riadattare la casa ricevuta in donazione dalla partigiana Adriana Locatelli, adibendola all’opera specifica di assistenza dei malati terminali e ricavando una struttura (inaugurata nel 1999) con ampi spazi e dieci posti letto. «Paradossalmente oggi siamo in una situazione per certi versi simile a quella degli anni ’80 – ha spiegato Paolo Meli della Comunità Emmaus, l’associazione che gestisce Casa Raphael – allora tante gente si è infettata non consapevolmente a causa di comportamenti a rischio. Oggi invece tutti sanno dell’esistenza di questa malattia, ma spesso vengono adottati comportamenti a rischio come se non esistesse, viene in qualche modo rimossa. Eppure esiste, è presente e ogni anno, nella provincia di Bergamo, si verificano 100 nuovi casi: attualmente sono 2.800 le persone con Hiv nella Bergamasca». Il periodo di permanenza degli ospiti a Casa Raphael varia a seconda dell’utente: non esiste una media, perché molto dipende non solo dal trascorso di ciascuno di loro, ma anche dalle prospettive per il futuro. «Per molti di loro il problema vero, una volta sistemata la situazione sanitaria (la malattia può infatti essere bloccata e tenuta sotto controllo), rimane quello del reinserimento sociale e lavorativo- ha aggiunto lo stesso Meli – molti utenti, infatti, hanno grosse difficoltà in questo senso, specialmente se privi di una rete sociale intorno a loro o di risorse personali. E la situazione attuale di crisi si fa sentire, a maggior ragione per le persone svantaggiate».