La tavola condivisa: l’accoglienza a pranzo con Godfrey e Fridday ha un altro sapore

Condivisione e accoglienza sono due parole che recentemente stanno modificando il loro significato o, quanto meno, il loro modo di essere percepite ed interpretate. Alla luce dei recenti fatti di cronaca – qualcuno parla, in modo inappropriato, di invasione – per talune persone suonano in modo strano, per non dire completamente distorto. “Chi accoglie è un buonista, complice degli attentatori; chi condivide un ingenuo” si sente dire da più parti, accompagnato da un invito che suona come una provocazione: “Perché allora non ve li portate a casa vostra?”.
Qualcuno questa provocazione l’ha presa alla lettera e, grazie all’iniziativa de “La tavola condivisa” promossa dalle Acli, ha davvero aperto le porte di casa sua al prossimo, anche solo per un pranzo. Uno zoccolo duro di persone ancora convinte che queste due parole (accoglienza e condivisione) siano ancora le mura portanti per una vita e per un’esistenza semplicemente umana. E d’altra parte sono innumerevoli le esperienze di accoglienza che potremmo citare per avvalorare questa tesi. I testi sacri ne sono colmi: sia nella Bibbia che nel Corano è riportato l’episodio di Abramo che accoglie, al meglio delle sua possibilità, tre stranieri, offrendo loro ospitalità e cibo senza chiedere nulla in cambio.
Anche io, con la mia famiglia, ho aderito all’iniziativa e ho condiviso il pranzo di domenica 20 dicembre con due richiedenti asilo accolti in una delle strutture bergamasche. Si chiamano Godfrey e Fridday e sono ospiti presso la casa San Giuseppe a Botta di Sedrina. Entrambi vengono dalla Nigeria e quindi la comunicazione in inglese è, tutto sommato, agevole e senza troppe complicazioni.
«Nigeria del sud, la parte cattolica del Paese. Noi siamo cattolici» tengono a precisare come a voler prendere le distanze, come a volersi giustificare. Giustificare per cosa? Per essere, eventualmente, musulmani? Non voglio entrare nel merito delle loro tristi vicende personali – né loro sembrano aver voglia di aprirsi e raccontarmi su due piedi le loro vicissitudini -. Scopro che Godfrey è in Italia dall’agosto 2014, che al suo Paese era un parrucchiere e che ha otto fratelli in Nigeria; Fridday, invece, è qui solo da febbraio, in Nigeria lavorava in una fattoria e ha lasciato la moglie e due figli per venire in Italia. Entrambi sono sbarcati in Sicilia dopo aver fatto la traversata in barca. Raccontano volentieri di come vivono qui, a Bergamo, di come sono stati accolti, delle loro difficoltà di integrazione: «Trovare un lavoro è impensabile, lo sappiamo bene» racconta Godfrey, il più chiacchierone dei due. «Passiamo gran parte delle nostre giornate a Botta di Sedrina, nella struttura in cui siamo accolti. Siamo più di cento persone di diverse nazionalità». Gli chiedo come se la cavano con l’italiano, se hanno imparato qualcosa: «Due volte a settimana frequentiamo la scuola di italiano al Patronato San Vincenzo» raccontano e, molto orgogliosamente, fanno un compendio delle parole italiane che hanno imparato ma che, mi dicono, utilizzano molto raramente proprio perché hanno difficoltà nell’interfacciarsi con altre persone che non siano gli ospiti a Botta di Sedrina.
Al termine del pranzo noto che Godfrey sta approfittando del WiFi per dare uno sguardo alle news sul sito della CNN. Sta leggendo un articolo sulle recenti dichiarazioni di Putin che intende, se necessario, inviare maggiori forze militari in Siria. Colgo l’occasione e chiedo cosa ne pensa di questo clima di terrore, qual è la situazione nei paesi arabi: «C’è da aver paura! Hai visto cosa è successo a Parigi?» mi chiede. Poi parla del suo Paese, anch’esso martoriato dal terrorismo di Boko Haram che sta facendo della Nigeria un altro sedicente Stato Islamico: «Al nostro paese Boko Haram sta facendo stragi, attentati e tantissimi morti. Come si può vivere in pace in queste condizioni? Come si può vivere tranquilli? Non è una questione di religione, di musulmani o cristiani. Certa gente è pazza e non ci si può ragionare».
Recentemente Papa Francesco ha detto che saper condividere è una virtù preziosa, soprattutto quando si è a tavola. E in effetti quale simbolo migliore di una tavola imbandita esprime condivisione e convivialità? Perché allora non condividere di più? Perché non fare tesoro di queste piccole-grandi esperienze ed imparare ad aprirsi all’altro, anche se non lo si conosce, anche se non parla la nostra lingua? Magari anche lui, nel suo piccolo, ha qualcosa da dirci, ha qualcosa da donarci. Come i tre stranieri che lasciarono Abramo con la promessa che sua moglie Sara, avanti negli anni, avrebbe avuto finalmente un figlio. L’incontro con l’altro può essere fecondo solo se c’è condivisione, solo se c’è accoglienza. Solo se dividiamo con lui anche il poco che abbiamo.